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Capitolo 20

L’isola misteriosa

Quello sconosciuto raccolto solo, morente di sete in mezzo all’immenso oceano, poteva avere quindici anni. Era spaventosamente magro, di statura alta per la sua età, coi capelli biondi, gli occhi grandi, spalancati, di un azzurro profondo, i lineamenti energici ma alterati da una lunga serie di patimenti. Era molto se pesava quaranta chilogrammi, compresi gli stracci che avvolgevano le sue magre membra.
L’ingegnere e O’Donnell, vivamente commossi nel vedersi davanti quel ragazzo ridotto a pelle e ossa, s’affrettarono a portargli una bottiglia di vino e una tazza d’acqua.
Il mozzo respinse la prima ma vuotò tutto d’una fiato la tazza, ripetendo con un fil di voce: “Oh! datemene ancora, signori!...
“Bevi un sorso di questo vino, prima, povero ragazzo,” disse l’ingegnere, “dopo berrai quant’acqua vorrai.”
Il naufrago obbedì, poi vuotò un altro bicchiere d’acqua che l’irlandese gli porgeva. “Grazie, signori,” balbettò.
“Hai fame?” gli chiese l’ingegnere.
“Tanta, signore,” rispose il naufrago. “Sono tre settimane che vivo con un biscotto ogni ventiquattr’ore e tre giorni che il mio stomaco è vuoto.”
“Lo vedo dalla tua magrezza, povero ragazzo. Bagna per ora questi biscotti in un bicchiere di vino: una scorpacciata dopo tanti digiuni potrebbe esserti fatale.”
“Ah! Voi siete buoni, signori,” disse. “Non lo erano certamente quelli della zattera.”
“Di quale zattera intendi parlare?”
“Di quella che montava l’equipaggio.”
“Si è sfasciata?”
“No, signore.”
“Ma perché l’hai abbandonata?”
“Per non venire ucciso e divorato,” rispose il mozzo, battendo i denti per il terrore.
“Quale terribile dramma marino si è svolto in questi paraggi?” mormorò O’Donnell.
“Si è affondata la tua nave?” chiese Mister Kelly.
“Sì, è andata a picco tre settimane fa a milletrecento miglia dalle isole Canarie,” disse il mozzo. “Si chiamava Florida ed era salpata da Baltimora con un carico di bazzeccole, destinata ai porti della Sierra Leone. Una notte si aprì una falla sotto la ruota di prua e il brick cominciò a fare acqua in tale quantità da rendere inutile il lavoro delle pompe. Si misero in acqua le imbarcazioni, ma il caldo aveva disgiunto le tavole e affondarono tutte, eccetto il piccolo canotto che io montavo poco fa. Allora, mentre una parte dell’equipaggio manovrava le pompe, gli altri marinai improvvisarono una zattera. Non avevano ancora terminato di costruirla, che il brick affondò, trascinando con sé il capitano e il secondo di bordo. Nella confusione che accadde in quel supremo istante, furono dimenticati i viveri che erano stati accumulati sul ponte del legno affondante, e si poterono a grande stento salvare tre casse di biscotti e due barilotti d’acqua che ancora galleggiavano. Fu deciso di fare rotta verso l’est, per approdare alle isole Canarie o in qualche punto della costa africana, ma le calme ci sorpresero e rimanemmo lunghi giorni immobili sotto un calore spaventevole. L’acqua ben presto mancò, poi mancarono i biscotti, quantunque venissero misurati con grande parsimonia.
Io avevo notato che i marinai tenevano sovente gli occhi fissi su di me e che poi si radunavano, discutendo calorosamente, ma procurando sempre che la loro voce non giungesse fino a me. Mi nacque un sospetto orribile: che tramassero di uccidermi e poi pascersi delle mie carni. Cinque notti orsono, mentre fingevo di dormire, vidi avvicinarsi a me il mastro d’equipaggio, seguiti da due marinai e udii il primo dire: “È magro come un merluzzo secco: preferisco che la sorte decida.”
“No,” risposero i compagni. “Questo fanciullo sarà la prima vittima della fame. Perché attendere che muoia? Prima o dopo è tutt’uno e noi potremo forse salvarci.”
Poi si allontanarono dicendo: “A domani.”
“Miserabili,” esclamò O’Donnell. “Uccidere un ragazzo!”
“La fame non ragiona, amico mio,” disse l’ingegnere. “Continua, ragazzo.”
“Avevo messo in serbo alcuni biscotti e un mezzo litro d’acqua che avevo nascosto nel cavo di una trave, sotto il tavolato della coperta. Decisi di fuggire senza perdere tempo. Attesi che tutti dormissero, poi salii nel canotto che era ormeggiato a poppa della zattera, m’imbarcai portando con me le poche provviste e mi allontanai dirigendomi verso il sud. Arrancai disperatamente tutta la notte, e all’alba avevo percorso tanto cammino da non scorgere più la zattera. Due giorni dopo avevo consumato i miei viveri, ma continuai a remare, con la speranza di incontrare qualche nave in rotta dall’Europa all’America, finché, stremato di forze, morendo di sete e di fame, stramazzai in fondo al canotto. Mi ero rassegnato a morire, quando, aprendo gli occhi vidi brillare una luce e presso a questa disegnarsi una forma umana...”
“Ero io che avevo acceso una torcia,” disse l’ingegnere. “Devi essere rimasto assai sorpresero nel vedere un uomo in aria.”
“Sì, signore,” rispose il mozzo. “Credetti di sognare, ma avendo scoperto sopra di voi una grande massa nera che rifletteva qua e là i bagliori della torcia, quantunque la cosa mi sembrasse strana, indovinai subito che sopra di me passava un pallone e lancia il mio primo grido.”
“Sei americano?' gli chiese Kelly.
“Sì, signore, sono virginiano, nato a Richmond e mi citiamo Walter Chidley.”
“Hai parenti a Richmond?”
“No, signore, sono solo al mondo e non li ho mai conosciuti.”
“Ti prendo come mio figlio.”
Gli occhi azzurri del povero mozzo si empirono di lacrime.
“Signore... signore.” balbettò. “Voi siete buono... e vi offro la mia vita.”
“Conservala, mio povero ragazzo,” disse l’ingegnere, commosso. “Benedico questo viaggio che mi ha fatto incontrare due buoni amici.”
“Grazie, Mister Kelly,” disse O’Donnell, stringendogli la mano che gli porgeva. “Questi due amici, come voi volete chiamarli, vi devono la vita.”
“E a voi forse devo la mia salvezza, O’Donnell. Senza di voi non so cosa sarebbe accaduto di me, in compagnia di quel disgraziato Simone.” Poi, volgendosi al mozzo:
“È al nord che si trova la zattera?” gli chiese.
“Lo credo, Mister Kelly.”
“Quanti uomini la montano?”
“Quando l’abbandonai si trovavano a bordo quattordici marinai, ma temo che ora non siano tutti vivi. Qualcuno sarà stato divorato.”
“Se la incontreremo cercheremo di aiutare quei disgraziati. Possiedo ancora dei viveri sufficienti per nutrirci un mese e spero di non aver bisogno di tanto per raggiungere la costa. Coricati su quel materasso, ragazzo mio e riposati: tu devi essere sfinito. Quando ti sveglierai potrai mangiare a piacimento.”
In quell’istante un urto violento fece oscillare fortemente la scialuppa e un nembo di spuma balzò sopra i bordi.
“Le onde!” esclamo O’Donnell, che si era curvato sul parapetto. “Tocchiamo la superficie dell’oceano.”
“Ci eravamo dimenticati di scaricare della zavorra,” disse l’ingegnere. “Questo ragazzo non pesa molto, ma gli aerostati non vogliono saperne di sopraccarichi.”
O’Donnell prese un sacco di zavorra di cinquanta chilogrammi e lo precipitò nell’oceano. Il Washington subito si rialzò, tendendo le corse delle àncore e la guide-rope.
“Vento da sud-ovest,” disse l’ingegnere, gettando uno sguardo sul mostra-vento appeso all’asta della bandiera e un altro alla bussola. “Partiamo!”
Rovesciarono i due coni e trassero a bordo la guide-rope. I due immensi fusi salirono lentamente e, raggiunti i quattrocento metri, si misero a filare verso il nord-est, in direzione delle Canarie.
Il mozzo, stremato dalle lunghe veglie e dai lunghi digiuni, si era coricato e dormiva tranquillamente sul materasso un tempo occupato dal disgraziato Simone; l’ingegnere, che aveva terminato il suo quarto di guardia, l’aveva imitato e O’Donnell si era collocato a prua, fumando. La notte era oscura assai. Uno strato di vapori, che a poco a poco si erano accumulati nelle profondità degli spazi celesti, intercettava completamente la debole luce degli astri. Giù, in fondo, l’oceano brontolava sordamente e si udivano le onde, sollevate dal vento che era diventato assai fresco, urtarsi e sfasciarsi. Di quando in quando, su quei flutti d'inchiostro si vedevano balenare dei punti luminosi che tosto scomparivano. Probabilmente erano pesce-cani, le bocche dei quali, di notte, diventano fosforescenti. Il Washington marciava con rapidità di venti chilometri all’ora, ma la sua direzione non era stabile. Sovente la corrente d'aria cambiava e lo spingeva ora verso il nord ora verso l’est e qualche volta lo ricacciava verso il sud. Alle dieci del mattino, però, la corrente del sud-ovest ebbe il sopravvento e trascinò l'aerostato verso il nord-nord-ovest, con una velocità superiore ai quaranta chilometri all’ora. Se continuava in quella direzione, gli aeronauti non dovevano tardare a scoprire qualche terra.
Alle quattro, mentre cominciava a disegnarsi verso oriente una bianca striscia di luce, una pioggia violenta si scatenò sull’oceano. I vapori che durante la notte si erano condensati sopra quella porzione dell'Atlantico, si scioglievano rapidamente.
Quei grossi goccioloni, cadendo sulla seta dei due palloni, producevano degli strani crepitii e rendevano pesante il vascello, il cui gas non aveva ancora cominciato a dilatarsi.
O’Donnell, che era sempre di quarto, s’accorse ben presto che scendeva verso l’oceano con notevole velocità. Dopo pochi minuti scorse le onde dell’Atlantico a sole quaranta braccia. Svegliò Mister Kelly e lo informò di quella rapida caduta.
“Gettiamo zavorra,” disse l’ingegnere.
“Ne abbiamo gettati altri cinquanta chilogrammi ieri sera, Mister Kelly,” disse l’irlandese.
“È necessario alleggerirci, O’Donnell”.
“Ma fra poco rimarremo senza, se continuiamo questo getto.”
“Abbiamo ancora trecento metri cubi d’idrogeno.”
“Vada la zavorra, dunque.”
Un altro sacco fu gettato. Il Washington s’innalzò con rapidità, attraverso lo strato nuvoloso, inzuppando uomini, coperte e materassi e si arrestò a milletrecento metri, filando sopra le masse vaporose. Lassù il vento soffiava gagliardo, mantenendo la direzione di nord-nord-est, con grande soddisfazione dell’ingegnere che sperava di risalire verso l’Europa, evitando la grande corrente dei venti alisei che potevano spingerlo nell’Atlantico centrale.
Alle otto del mattino, l’aerostato era salito di altri millecinquecento metri avendo cominciato il dilatamento dell’idrogeno a causa del calore solare che era ancora intenso, quantunque gli aeronauti si fossero allontanati assai dal Tropico del Cancro.
Alle dieci, O’Donnell, che stava seduto a prua discorrendo col mozzo, segnalò un grande transatlantico che filava verso l’occidente con una velocità di quarantadue chilometri all’ora e al basso, a circa ottocento metri dalla superficie dell'oceano, si estendevano ancora qua e là dei nuvoloni gravidi di pioggia, i quali erano separati da brevi distanze.
Alle undici, l’ingegnere che da parecchio tempo guardava ostinatamente verso l’est, mostrò a O’Donnell una specie di nebbia, ma che si alzava in forma di cono e che appariva a una grandissima distanza.
“Che cos’è?” chiese l'irlandese.
“Laggiù si estendono le isole Canarie,” rispose l'ingegnere.
“Le Canarie!” esclamò O’Donnell. “È impossibile, signore, che vi siamo giunti così presto!”
“Giunti? Vi è ancora un bel tratto di via da percorrere, amico mio.”
“Se si scorge una delle loro montagne, non devono essere molto lontane.”
“Ma quel picco che voi scorgete è quello di Teneriffa, il quale è tanto alto che lo si scorge dalla distanza di più di duecento chilometri.”
“Abbiamo del tempo per giungere a quell’arcipelago”
“Se mai lo toccheremo, poiché il vento ci spinge al largo di quelle isole.”
“Formano un gruppo considerevole, quelle terre?”
“Le isole sono cinque, la Gran Canaria, Palma, Lanzarate, Geneira, Ferro; poi vengono le isolette di Labos, Roqueta, Alegranza, Santa Giara e Graciosa, ma pare che un tempo fossero undici.”
“È scomparsa l’undicesima?”
“Così si dice.”
“Non si crede forse alla sua scomparsa?”
“Sì e no.”
“Spiegatevi meglio, Mister Kelly.”
“Allora vi dirò che le antiche cronache portoghesi fanno menzione di un’isola che si chiamava S. Bernardo. Si dice che alla prima metà del XV secolo, un vecchio marinaio si presentasse al re Enrico confidandogli di aver veduto nei pressi delle Canarie un’isola abitata da antichi portoghesi e sulla quale sorgevano sette opulente città con grandiosi palazzi. Narra ora la leggenda che un ricco cavagliere portoghese, certo Don Fernando de Ulmo, partisse con due caravelle armate a proprie spese, alla ricerca di quell’isola misteriosa che supponeva abitata da portoghesi fuggiti dalla patria durante l’invasione dei mori, cioè nell’VIII secolo. Fernando de Ulmo sarebbe partito, avrebbe sbarcato a S. Bernardo, splendidamente accolto da parte dei suoi compatrioti i quali lo avrebbero nominato loro adelantado. Ma ecco che comincia una storia meravigliosa e assai stravagante. La leggenda dice che, un secolo dopo, Fernando de Ulmo ritornava a Lisbona...”
“Cent’anni dopo?” chiese O’Donnell.
“Sì, ma è la leggenda che narra questo amico mio. Si fece conoscere, ma lo trattarono da pazzo: più nessuno si ricordava di lui e del suo viaggio all’isola delle sette opulente città, essendo i suoi amici e i suoi parenti morti da molti anni. Un vecchio, però, si rammentò di aver udito raccontare, nella sua gioventù, che un Ulmo era partito per le Canarie e condusse il navigatore presso una tomba dove era scolpito il suo ritratto, che gli somigliava assai, malgrado l’età. Ulmo ripartì per le Canarie per ritrovare la sua isola, ma era scomparsa. Morì poco dopo mentre sul promontorio di Palma cercava avidamente con gli sguardi le tracce di quella misteriosa terra, e fu sepolto nella cattedrale dell’isola.”
“Ma credete che sia realmente esistita quell’isola?”
“E perché no? Le Canarie sono di natura vulcanica e quell’isola può essere stata inghiottita durante qualche terribile commozione del fondo marino. Gli abitanti dell’arcipelago e i naviganti portoghesi e spagnuoli dicono che, di quando in quando, specie allorché i crateri di Teneriffa eruttano e il terremoto scuote le isole, quell’isola riappare a fior d’acqua per poi tornare a inabissarsi.”

 

 Chapitre 20

L'île mystérieuse

L'étranger recueilli seul, mourant de soif au milieu du vaste océan, pouvait avoir quinze ans. Il était d'une maigreur effrayante, de grande taille pour son âge, avec des cheveux blonds, de grands yeux bleus profonds et bien ouverts, des traits énergiques mais altérés par une longue série d'afflictions. C'était beaucoup si elle pesait quarante kilogrammes, y compris les guenilles qui enveloppaient ses membres minces.
L'ingénieur et O'Donnell, profondément émus de voir ce garçon réduit à la peau et aux os, s'empressent de lui apporter une bouteille de vin et un verre d'eau.
Le garçon de cabine refusa le premier, mais vida immédiatement la tasse en répétant à voix basse : "Oh, donnez-m'en encore, messieurs !
"Bois d'abord une gorgée de ce vin, mon pauvre garçon, dit l'ingénieur, puis bois autant d'eau que tu veux."
Le naufragé obéit, puis vide un autre verre d'eau que lui tend l'Irlandais. "Merci, messieurs", a-t-il balbutié.
"Tu as faim ?" lui demande l'ingénieur.
"Beaucoup, monsieur", a répondu le naufragé. "Cela fait trois semaines et trois jours que je vis avec un biscuit toutes les vingt-quatre heures et que mon estomac est vide".
"Je le vois à ta minceur, pauvre garçon. Trempez ces biscuits dans un verre de vin pour l'instant : une surabondance après tant de jeûnes pourrait vous être fatale."
"Ah ! Vous êtes bons, messieurs", a-t-il dit. "Ceux du radeau ne l'étaient sûrement pas."
"Quel radeau voulez-vous dire ?"
"De celui qui a monté l'équipage."
"Est-ce qu'il s'est cassé ?"
"Non, monsieur."
"Mais pourquoi l'avez-vous abandonné ?"
"Pour éviter d'être tué et dévoré", répondit le matelot en claquant des dents de terreur.
"Quel terrible drame maritime s'est déroulé en ces lieux ?" murmura O'Donnell.
"Votre bateau a-t-il coulé ?" a demandé Monsieur Kelly.
"Oui, il a sombré il y a trois semaines à mille trois cents milles des îles Canaries", dit le matelot. "Il s'appelait Florida et avait appareillé de Baltimore avec une cargaison de broutilles, à destination des ports de la Sierra Leone. Une nuit, une fuite s'est ouverte sous la roue d'étrave et la brique a commencé à faire de l'eau en telle quantité que le travail des pompes était inutile. Les bateaux ont été mis à l'eau, mais la chaleur avait délogé les planches et ils ont tous coulé, à l'exception du petit canot que j'étais en train de monter. Ainsi, pendant qu'une partie de l'équipage manœuvre les pompes, les autres marins improvisent un radeau. Ils n'avaient pas encore fini de la construire, lorsque la brique a coulé, entraînant avec elle le capitaine et le commandant en second. Dans la confusion qui s'est produite à ce moment suprême, les provisions qui avaient été entassées sur le pont du bois qui coulait ont été oubliées, et trois caisses de biscuits et deux barils d'eau qui flottaient encore ont pu être sauvés de justesse. Il a été décidé de se diriger vers l'est, d'accoster aux îles Canaries ou quelque part sur la côte africaine, mais les calmes nous ont surpris et nous sommes restés immobiles pendant de longs jours sous une chaleur effrayante. Nous avons rapidement manqué d'eau, puis de biscuits, bien qu'ils aient été mesurés avec beaucoup de parcimonie.
J'avais remarqué que les marins gardaient souvent les yeux fixés sur moi et qu'ils se rassemblaient ensuite autour d'eux, discutant chaleureusement, mais veillant toujours à ce que leurs voix ne m'atteignent pas. Un horrible soupçon est né en moi : qu'ils complotaient pour me tuer et se nourrir ensuite de ma chair. Il y a cinq nuits, alors que je faisais semblant de dormir, j'ai vu le maître de l'équipage s'approcher de moi, suivi de deux matelots, et j'ai entendu le premier dire : " Il est aussi maigre qu'une morue séchée : je préfère laisser le sort en décider. "
"Non", ont répondu les compagnons. "Cet enfant sera la première victime de la faim. Pourquoi attendre qu'il meure ? Tôt ou tard, c'est tout, et nous pourrons peut-être nous sauver."
Puis ils se sont détournés en disant : "A demain."
"Misérables", s'est exclamé O'Donnell. "Tuer un garçon !"
"La faim ne raisonne pas, mon ami", dit l'ingénieur. "Vas-y, mon gars."
"J'avais gardé quelques biscuits et un demi-litre d'eau, que j'ai caché dans le creux d'une poutre, sous le bordé du pont. J'ai décidé de m'échapper sans perdre de temps. J'ai attendu que tout le monde soit endormi, puis j'ai grimpé dans le canot pneumatique qui était amarré à l'arrière du radeau, j'ai embarqué avec mes quelques provisions et j'ai pris la direction du sud. J'ai marché désespérément toute la nuit, et à l'aube, j'avais parcouru une telle distance que je ne pouvais plus voir le radeau. Deux jours plus tard, j'avais épuisé mes provisions, mais j'ai continué à ramer, espérant rencontrer quelque navire en route d'Europe vers l'Amérique, jusqu'à ce que, à bout de force, mourant de soif et de faim, je m'écroule au fond du radeau. Je m'étais résigné à mourir, lorsque, ouvrant les yeux, j'ai vu une lumière briller et une forme humaine s'approcher d'elle..."
"C'est moi qui avais allumé une torche", dit l'ingénieur. "Vous avez dû être très surpris de voir un homme dans les airs."
"Oui, monsieur", a répondu le matelot. "Je croyais rêver, mais ayant découvert au-dessus de vous une grande masse noire reflétant çà et là les éclairs de la torche, bien que la chose me parût étrange, je devinai aussitôt qu'un ballon passait au-dessus de moi et poussai mon premier cri."
"Vous êtes américain ?" demande Kelly.
"Oui, monsieur, je suis de la Virginie, né à Richmond, et je m'appelle Walter Chidley."
"Avez-vous de la famille à Richmond ?"
"Non, monsieur, je suis seul au monde et je ne les ai jamais rencontrés."
"Je te prends pour mon fils."
Les yeux bleus du pauvre garçon de cabine se sont remplis de larmes.
"Monsieur... monsieur", a-t-il balbutié. "Tu es bon... et je t'offre ma vie."
"Garde-le, mon pauvre garçon", dit l'ingénieur, ému. "Je bénis ce voyage qui m'a réuni avec deux bons amis."
"Merci, Monsieur Kelly", dit O'Donnell en serrant la main qu'il lui tendait. "Ces deux amis, comme vous voulez les appeler, vous doivent la vie."
"Et c'est peut-être à vous que je dois mon salut, O'Donnell. Sans vous, je ne sais pas ce que je serais devenu en compagnie de ce misérable Simon." Puis, se tournant vers le matelot :
"C'est au nord que se trouve le radeau ?" lui demanda-t-il.
"Je le crois, Monsieur Kelly."
"Combien d'hommes la montent ?"
"Quatorze marins étaient à bord lorsque je l'ai abandonné, mais je crains qu'ils ne soient pas tous vivants maintenant. Certains auront été dévorés."
"Si nous la rencontrons, nous essaierons d'aider ces malheureux. J'ai encore assez de provisions pour nous nourrir pendant un mois, et j'espère que je n'aurai pas besoin d'autant pour atteindre la côte. Allonge-toi sur ce matelas, mon garçon, et repose-toi : tu dois être épuisé. Quand tu te réveilleras, tu pourras manger à ta guise."
À cet instant, un choc violent fait tanguer le canot de sauvetage, et un nuage d'écume saute par-dessus les bords.
"Les vagues !" s'exclama O'Donnell, qui s'était penché sur le bastingage. "Nous touchons la surface de l'océan."
"On a oublié de décharger du lest", a dit le mécanicien. "Ce type ne pèse pas lourd, mais les ballons ne veulent pas connaître la surcharge."
O'Donnell a pris un sac de 50 kilos de lest et l'a plongé dans l'océan. Les Washington se sont immédiatement relevés, étirant les courses des ancres et de la corde de guidage.
"Vent de sud-ouest", dit le mécanicien en jetant un coup d'œil à l'anémomètre accroché au mât et un autre au compas. "Nous sommes partis !"
Ils ont renversé les deux cônes et remonté la corde de guidage à bord. Les deux immenses fuseaux montent lentement et, parvenus à quatre cents mètres, tournent vers le nord-est, en direction des Canaries.
Le matelot, épuisé par de longues veilles et de longs jeûnes, s'était couché et dormait paisiblement sur le matelas occupé autrefois par le malheureux Simon ; le mécanicien, qui avait fini son quart de veille, l'avait imité et O'Donnell s'était placé à la proue en fumant. La nuit était très sombre. Une couche de vapeur, qui s'était progressivement accumulée dans les profondeurs des espaces célestes, interceptait complètement la faible lumière des étoiles. Au fond, l'océan grondait de façon assourdissante, et on entendait les vagues, soulevées par le vent devenu très frais, s'écraser et se briser.
De temps en temps, on pouvait voir des points lumineux clignoter sur ces vagues d'encre, qui disparaissaient rapidement. C'était probablement des poissons-chiens, dont la bouche devient phosphorescente la nuit. Le Washington marchait à une vitesse de vingt kilomètres par heure, mais sa direction n'était pas stable. Souvent, le courant d'air changeait et le poussait tantôt vers le nord, tantôt vers l'est, et parfois le repoussait vers le sud. Mais à dix heures du matin, le courant de sud-ouest a pris le dessus et a tiré l'aérostat vers le nord-nord-ouest à une vitesse de plus de quarante kilomètres par heure. Si elle continue dans cette direction, les aéronautes ne devraient pas tarder à découvrir des terres.
À quatre heures, alors qu'une traînée de lumière blanche commençait à se diriger vers l'est, une pluie violente a éclaté sur l'océan. Les vapeurs qui s'étaient condensées pendant la nuit sur cette partie de l'Atlantique fondaient rapidement.
Ces grosses gouttelettes, tombant sur la soie des deux ballons, produisaient d'étranges craquements et alourdissaient le vaisseau, dont le gaz n'avait pas encore commencé à se dilater.
O'Donnell, qui était toujours en quatrième vitesse, a rapidement remarqué qu'il descendait vers l'océan à une vitesse considérable. Après quelques minutes, il a vu les vagues de l'Atlantique à seulement quarante brasses. Il a réveillé M. Kelly et l'a informé de la chute rapide.
"On a jeté du lest", a dit l'ingénieur.
"Nous avons jeté cinquante kilogrammes de plus la nuit dernière, Mister Kelly," dit l'Irlandais.
"Il est nécessaire de nous alléger, O'Donnell."
"Mais nous allons bientôt en manquer si nous continuons ce dumping."
"Nous avons encore trois cents mètres cubes d'hydrogène."
"Va pour le lest, alors."
Un autre sac a été lancé. Le Washington s'est élevé rapidement à travers la couche de nuages, trempant hommes, couvertures et matelas, et s'est arrêté à mille trois cents mètres, filant au-dessus des masses vaporeuses. Là-haut, le vent souffle vigoureusement, maintenant une direction nord-nord-est, à la grande satisfaction de l'ingénieur qui espère s'élever vers l'Europe, en évitant le grand courant d'alizés qui pourrait le pousser dans l'Atlantique central.
A huit heures du matin, l'aérostat s'était encore élevé de mille cinq cents mètres, ayant commencé l'expansion de l'hydrogène due à la chaleur solaire encore intense, même si les aéronautes s'étaient éloignés du Tropique du Cancer.
À dix heures, O'Donnell, qui était assis à la proue et parlait avec le matelot, signala qu'un grand paquebot filait vers l'ouest à quarante-deux kilomètres à l'heure et qu'en dessous, à quelque huit cents mètres de la surface de l'océan, de gros nuages de pluie traînaient encore ici et là, séparés par de courtes distances.
À onze heures, l'ingénieur, qui s'obstinait depuis longtemps à regarder vers l'est, montra à O'Donnell une sorte de brouillard, mais qui s'élevait en forme de cône et apparaissait à une grande distance.
"Qu'est-ce que c'est ?" demande l'Irlandais.
"Là-bas s'étendent les îles Canaries", a répondu l'ingénieur.
"Les Canaris !" s'exclame O'Donnell. "C'est impossible, monsieur, que nous soyons arrivés là si tôt !"
"Arrivé" ? Il y a encore un long chemin à parcourir, mon ami."
"Si vous apercevez une de leurs montagnes, ils ne doivent pas être loin."
"Mais ce pic que vous apercevez est celui de Teneriffa, qui est si haut qu'on peut le voir à une distance de plus de deux cents kilomètres".
"Nous avons le temps d'atteindre cet archipel."
"Si jamais on la touche, car le vent nous chasse de ces îles."
"Est-ce qu'ils forment un groupe considérable, ces terres ?"
"Il y a cinq îles, Gran Canaria, Palma, Lanzarate, Geneira, Ferro ; puis viennent les îlots de Labos, Roqueta, Alegranza, Santa Giara et Graciosa, mais il semble qu'il y en avait onze auparavant."
"Le onzième a disparu ?"
"On dit qu'il en est ainsi."
"Ne croit-on pas qu'il a disparu ?"
"Oui et non."
"Expliquez-vous mieux, M. Kelly."
"Alors je vous dirai que les anciennes chroniques portugaises font mention d'une île appelée Saint-Bernard. On raconte que dans la première moitié du XVe siècle, un vieux marin se présenta au roi Henri en lui confiant qu'il avait vu près des Canaries une île habitée par d'anciens Portugais et sur laquelle se dressaient sept villes opulentes aux palais grandioses. La légende veut qu'un riche chevalier portugais, un certain Don Fernando de Ulmo, partit avec deux caravelles armées à ses frais, à la recherche de cette île mystérieuse, qu'il supposait habitée par des Portugais ayant fui leur pays lors de l'invasion des Maures, c'est-à-dire au VIIIe siècle. Fernando de Ulmo se met en route, débarque à Saint-Bernard, est magnifiquement accueilli par ses compatriotes qui le nomment leur adelantado. Mais ici commence une histoire merveilleuse et très extravagante. La légende veut qu'un siècle plus tard, Fernando de Ulmo soit revenu à Lisbonne..."
"Cent ans plus tard ?" a demandé O'Donnell.
"Oui, mais c'est la légende qui parle de cet ami à moi. Il se fit connaître, mais on le traita comme un imbécile : personne ne se souvenait de lui ni de son voyage vers l'île des sept villes opulentes, ses amis et parents étant morts depuis de nombreuses années. Un vieil homme, cependant, se rappelait avoir entendu dans sa jeunesse une histoire selon laquelle un Ulmo était parti aux Canaries et avait conduit le marin jusqu'à une tombe où était sculpté son portrait, lui ressemblant beaucoup, malgré son âge. Ulmo est reparti vers les Canaries pour retrouver son île, mais elle avait disparu. Il mourut peu après, alors que sur le promontoire de Palma il cherchait avidement du regard les traces de cette terre mystérieuse, et fut enterré dans la cathédrale de l'île."
"Mais croyez-vous que cette île a vraiment existé ?"
"Et pourquoi pas ? Les Canaries sont de nature volcanique et cette île a pu être engloutie lors d'une terrible commotion des fonds marins. Les habitants de l'archipel et les marins portugais et espagnols disent que, de temps en temps, surtout lorsque les cratères de Teneriffa entrent en éruption et que le tremblement de terre secoue les îles, cette île réapparaît au bord de l'eau, puis coule à nouveau."



 

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