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Capitolo 8

Le grandi ascensioni

Al grido dell’ingegnere e alla detonazione, O’Donnell svegliatosi bruscamente, era balzato in piedi, credendo che l’aerostato fosse scoppiato e che la navicella precipitasse fra le spumanti onde dell'Atlantico.
“Gran Dio!” esclamò l’irlandese. “Che cosa succede, Mister Kelly?”
“Alle ancore e senza perdere tempo!” disse l’ingegnere.
“Precipitiamo?”
“No: ci prendono a cannonate”
“Ancora?”
“Silenzio: afferrate il gherlino che scorre sulle guide-ropes e rovesciate il cono di prua, mentre io rovescio quello di poppa, e tu, Simone, preparati a gettare un sacco di zavorra. Presto, o una palla attraverserà qualche pallone.”
L’irlandese, che aveva compreso il pericolo gravissimo che correvano, afferrò la funicella che scendeva assieme alla corda-guida e che si univa all'estremità del cono, e operò una trazione energica, mentre l’ingegnere, dal canto suo, faceva altrettanto. Le due ancore si rovesciarono, scaricandosi dei quattrocento litri che contenevano: peso enorme, che l’aerostato non sarebbe stato capace di sollevare, se non gettando altrettanta zavorra.
Il Washington, alleggerito da quel peso considerevole, fece un brusco salto in aria, rovesciando i tre aeronauti, che non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alle corde. Quasi nello stesso momento un colpo di cannone tuonò sull'oceano, e un obice passò, fischiando, a tre soli metri dalla murata di babordo della navicella, scoppiando seicento passi più innanzi.
“Canaglie!” urlò O’Donnell. “Se avessi una dozzina di granate, vorrei rasare la vostra nave come un pontone.”
L’aerostato continuava a salire con grande rapidità. Passò i mille metri, poi i duemila, e si arrestò ai duemilatrecento. Urla di furore echeggiarono sull’oceano, seguite da tre detonazioni e da un vivo fuoco di moschetteria; ma ormai il pallone era fuori di portata, e né le palle dei cannoni, né quelle delle carabine lo potevano raggiungere.
“Auff!” esclamò l’irlandese, asciugandosi il freddo sudore che gli imperlava la fronte. “Cinque minuti di ritardo e noi eravamo perduti! Vedete, Mister Kelly, a qual pericolo vi esponete per colpa mia?”
“Un viaggio senza emozioni che cosa sarebbe?” disse l’ingegnere. “Per Bacco! Quegli inglesi sono bene accaniti contro di noi! Ma si stancheranno presto.”
“Che specie di nave hanno mai, per averci raggiunti ancora?”
“Una nave che fila quindici o sedici nodi all’ora.”
“Ma noi abbiamo filato più di loro.”
“Ma il vento ci ha respinti verso le coste americane. Se la corrente non avesse cambiato direzione, a quest’ora quella nave sarebbe così lontana da perdere ogni speranza di raggiungerci. Ci ha incontrati per pura combinazione.”
“Fortunatamente l’avete scorta per tempo. Ci insegue ancora?”
“Vedo laggiù i suoi fanali di posizione; ma sono già assai lontani.”
“Andiamo ancora verso il nord-ovest?”
“...Ma...No: abbiamo ritrovato la nostra corrente e navighiamo verso il nord-est!”
“Verso l'Europa!”
“Sì, O’Donnell. Ricomincio a sperare.”
L’aerostato, innalzatosi per lo scaricamento di quei cinquanta chilogrammi di zavorra, aveva infatti ritrovato quella grande corrente aerea che l’ingegnere aveva scoperta, e che pareva soffiasse costante verso il nord-est. Mentre l’attenzione degli aeronauti era volta alla nave da guerra, i due immensi fusi avevano virato di bordo, ed ora fuggivano nella prima direzione con una velocità di sessanta miglia all’ora, avanzando in quell’enorme distesa di acqua, che si tingeva dei primi chiarori dell’alba. La nave da guerra, impotente a lottare con la velocità straordinaria dei due aerostati, aveva cessato il suo cannoneggiamento. In pochi minuti era diventata un punto oscuro che appena si distingueva sulla superficie dell’Atlantico. Fra poco anche i suoi fanali dovevano scomparire.
Il sole, intanto, stava per alzarsi sull’orizzonte orientale. La luce bianca era diventata rosea, gli astri impallidivano rapidamente, confondendosi fra quelle prime ondate rosseggianti; poi il primo raggio sorse improvvisamente là dove l’oceano sembrava unirsi col cielo, e l’acqua scintillò, cospargendosi di pagliuzze d’oro di un effetto superbo, mentre la superficie dei palloni si imporporava. Le ultime tenebre scomparvero sotto quella brusca invasione dei raggi: gli astri sembrarono fondersi istantaneamente, e le acque ripresero la loro tinta verdastra, smeraldina, alternata a strati di un azzurro profondo.
L’ingegnere esaminò l’orizzonte per vedere se qualche nave era in vista, o se si scorgeva, verso il nord-est, qualche terra. L’Oceano era deserto, e nessuna isola o continente si vedeva in alcuna direzione.
Solamente degli uccelli marini volteggiavano sopra l’azzurra superficie, precipitando di quando in quando fra le onde per impadronirsi dei pesci che osavano mostrarsi.
Si vedevano numerose procellarie, quei funebri uccelli delle tempeste, che s’incontrano sotto tutte le latitudini, qualche fregata dal fulmineo volo e parecchie coppie di alcioni. Di tratto in tratto si vedevano pure balzare fuori dalle onde, volare per venti o trenta metri e poi ricadere, centinaia di quegli strani pesci, detti dattilotteri o pesci volanti, alcuni lunghi un buon piede, bruttissimi, di colore bruno rossastro, le natatoie nere, con in capo una specie di casco irto di pungiglioni, ed altri lunghi appena venti centimetri e con la pelle azzurro-argentea. S’alzavano da varie parti, s’incrociavano in tutti i sensi, facevano sforzi prodigiosi per mantenersi in aria, ma ricadevano appena si disseccavano le loro natatoie.
Senza dubbio, quei disgraziati abitanti dell’oceano erano assaliti da altri pesci più potenti e più voraci.
“È una disgrazia il non avere più una rete” disse O’Donnell.
“Mangerei volentieri un arrosto di pesci per colazione.”
“Vi dimenticate che siamo a tremila metri e che non abbiamo una cucina, ghiottone?” chiese l'ingegnere.
“Avete ragione, Mister Kelly. Mi dimenticavo che non abbiamo del fuoco e che, anche avendone, sarebbe pericoloso accenderlo. Ma, per mille diavoli, vi sono delle migliaia di pesci laggiù.”
“Vi sorprende forse?”
“No, perché io so che i pesci sono molto prolifici e che depongono centinaia di nova.”
“Anche migliaia, e qualcuno anche milioni.”
“Suppongo che saranno le aringhe le più feconde. So che nelle baie della mia patria si radunano in banchi immensi.”
“Vi ingannate, perché le aringhe in media non danno che tremila uova.”
“Vi sembra poco?”
“E cosa direste dei merluzzi che ne depongono sette milioni?”
“Per Giove!”
“E del pesce lira, che ne depone dai venti ai trenta?”
“Trenta milioni di uova!” esclamò O’Donnell. “'Quale famiglia deve uscire da una coppia di quei pesci!”
“Si ritiene che siano i più prolifici di tutti. Ve n’è però uno che per le sue dimensioni meschine può calcolarsi più fecondo dei pesci lira: è pleuronectes flexus, il quale è piccolo, somigliante alla così detta passera di mare e può dare fino a un milione e mezzo di uova.”
Mentre così chiacchieravano il Washington, che galleggiava in mezzo a un mare di luce, cominciava a salire verso le alte regioni dell’atmosfera.
Già le sue pieghe erano scomparse a poco a poco e le sue superfici si erano stese sotto lo sforzo dell’idrogeno che il calore solare dilatava, aumentando considerevolmente la sua forza ascensionale, che diventava ora maggiore a causa di quel getto di zavorra.
Alle dieci era già salito a 3600 metri e non si era ancora fermato. O’Donnell, che non si era ancora accorto di nulla, ma che sentiva aumentare il freddo, il quale toccava già quasi lo zero, si guardò attorno, credendo che l’aerostato fosse entrato in qualche nube di ghiaccioli; ma l’atmosfera era d’una limpidezza ammirabile.
“Dove siamo?” chiese. “Ci siamo avvicinati, a nostra insaputa, alle regioni polari?”
“No: filiamo sempre verso il nord-est, seguendo il 48° parallelo” rispose l’ingegnere. “Questo abbassamento di temperatura deriva dalla nostra elevazione. Guardate il barometro: siamo già a 3700 metri.”
“Che il pallone voglia scappare nella luna?”
“Si fermerà. Non dubitate.”
“Più si sale, più aumenta il freddo?”
“Sì e l’aria diventa talmente rarefatta da uccidere gli imprudenti che osano salire troppo in alto.”
“E per quali cause?”
“Per la diminuzione della tensione dell’ossigeno, che a quelle altezze non penetra più nel sangue e di conseguenza nei tessuti in quantità sufficiente a mantenere le combustioni vitali nel loro stato di energia normale. All’altezza in cui ci troviamo, già il vostro polso deve avere ottanta battiti al minuto, e dovete provare un principio di nausea.”
“Infatti provo un certo malessere, Mister Kelly.”
“Se la salita continuare à, il vostro ventre comincerà a gonfiarsi, sentirete la faccia in congestione e proverete anche qualche vertigine. Più su vi è la morte, ma noi non toccheremo quella zona mortale.”
“Lo spero, Mister Kelly, se non per me, per voi. Ditemi: vi sono stati degli aeronauti che hanno osato spingersi fino a quella zona?”
“Sì e alcuni non sono più ridiscesi vivi. I primi che si slanciarono arditamente negli spazi celesti per verificare fino a quale altezza l’aria era respirabile per l’uomo, furono Robertson e Lhoêst, i quali nel 1803 riuscirono a raggiungere, a quanto sembra, i 7000 metri. Si disse allora che a Robertson era gonfiata la testa a tal segno da non potersi più mettere il cappello; ma io la ritengo una frottola.
Nel 1804 Gay-Lussac tocca pure 7000; prova nausee, vertigini e un principio di soffocamento; ma ridiscende vivo. Darral e Bixio nel 1850 toccarono anche loro i 7000 metri. Nel 1850 Gaisher e Coxwell affermarono di aver raggiunto i 10.000 metri. Il primo svenne; ma il secondo, quantunque non potesse far uso delle mani perché il freddo intenso gliele aveva assiderate, riusciva ad afferrare coi denti la corda della valvola di sfogo, obbligando il pallone a ridiscendere.
Io però sono d'opinione che non abbiano raggiunto quell’altezza, e così pensano pure molti aeronauti. Se si fossero spinti tanto in alto, non sarebbero ritornati a terra vivi.
La più drammatica e più terribile ascensione fu quella dello Zenith, che costò la vita a due giovani e audaci aeronauti, a Croce-Spinelli, un italiano naturalizzato francese, ed a Silvel. Già nel 1874, incoraggiati e aiutati dalla Società Francese di Navigazione Aerea, avevano fatto una prima ascensione, raggiungendo i 7300 metri. Il 15 Aprile 1875 partivano sull'aerostato lo Zenith, in compagnia di Tissandier, un aeronauta che aveva eseguito già oltre venti ascensioni. L’aerostato, continuamente scaricato dalla zavorra che portava, s’innalzava rapidamente verso le solitudini gelate delle grandi altezze. Il freddo li intirizzì, le nausee sopravvennero, le vertigini li colsero; ma continuarono intrepidamente a salire. A 8000 metri Croce-Spinelli e Silvel, malgrado respirassero di frequente l’ossigeno che avevano portato con loro, caddero; ma Tissandier resiste ancora e continuò le sue osservazioni. A 8600 metri lo Zenith s’arrestò, poi ridiscese; ma portava con sé due cadaveri: Croce-Spinelli e Silvel erano morti! Che cosa ne dite, O’Donnell?”
L’irlandese, che fino ad allora gli stava seduto a sinistra, a cavalcioni d’una panchina del battello, non diede alcuna risposta. L’ingegnere si volse verso di lui e lo vide accasciato su se stesso, come se fosse stato improvvisamente colto da uno svenimento, o da un sonno irresistibile.
Guardò a poppa e vide Simone che pareva pure addormentato.
“Diavolo!” esclamò. “Dove ci troviamo?”
Gettò uno sguardo sul barometro: segnava 4300 metri. “È troppo,” mormorò. “Ancora poche centinaia di metri più in alto, e questi uomini, non abituati alle ascensioni, dormiranno per sempre. Afferrò le due corde che mettevano capo alle valvole di sfogo e diede uno strappo. Tosto in alto si udirono degli scoppiettii e all’intorno si sparse un acuto odore di idrogeno.
“Basta,” disse mezzo minuto dopo. “È troppo prezioso per consumarlo.” Il Washington, benché appena salassato, discendeva lentamente nelle regioni più respirabili. In dieci minuti toccò i 3600 metri e colà giunto arrestò la sua discesa. O’Donnell aprì gli occhi, sbadigliando come un orso che non dorme da una settimana.
“Che vi pare della disgraziata sorte toccata a Croce-Spinelli e a Silvel?” gli chiese Kelly, con un sorriso leggermente malizioso.
“Silvel! Croce-Spinelli!...” esclamò O’Donnell, guardando l’ingegnere con due occhi strabuzzati. “Ma siete uno stregone voi, che indovinate i miei sogni?”
“Avete sognato, O’Donnell?”
“Sì, di palloni, di ascensioni di un certo Tissandier e... Ma perché ridete?”
“Perché non avete sognato nulla di tutto ciò, ma l’avete udito dalla mie labbra e vi siete addormentato mentre io vi narravo quella drammatica ascensione.”
“Mi sono addormentato, io!”
“Sì, O’Donnell, ma per effetto dell'altezza del Washington e Simone, che comincia solamente ora ad aprire gli occhi, vi teneva compagnia. Come vi sentite?”
“Benissimo: anzi ho una fame da lupo.”
“Buon segno,” disse Kelly, ridendo. “Con la discesa scompaiono repentinamente i disturbi pericolosi cagionati dalle eccessive altezze.”
“Dev’essere così, signor Ned; ma si vede che le ascensioni non sono fatte per me, né per Simone.”

 

 Chapitre 8

Les grandes ascensions

Au cri de l'ingénieur et à la détonation, O'Donnell se réveilla brusquement et avait bondi sur ses pieds, pensant que le ballon avait éclaté et que le navire plongeait dans les vagues écumantes de l'Atlantique.
"Bon dieu!" s'exclama l'Irlandais. « Que se passe-t-il, monsieur Kelly ?
« Au mouillage et sans perdre de temps ! dit l'ingénieur.
"Est-ce qu'on tombe ?"
"Non : ils nous tirent dessus avec des coups de canon"
"Encore?"
« Silence : attrape l'aussière qui court sur les guide-cordes et renverse le cône de proue, pendant que je renverse celui de poupe, et toi, Simone, prépare-toi à jeter beaucoup de lest. Dépêchez-vous, ou une balle traversera une balle.
L'Irlandais, qui avait compris le danger très sérieux qu'ils couraient, saisit le petit câble qui descendait avec le guide-corde et qui rejoignait l'extrémité du cône, et opéra une traction vigoureuse, tandis que l'ingénieur, de son côté, faisait le même. Les deux ancres se renversèrent, déchargeant les quatre cents litres qu'elles contenaient : un poids énorme, que l'aérostat n'aurait pu soulever sans jeter autant de lest.
Le Washington, soulagé de ce poids considérable, fit un bond soudain dans les airs, renversant les trois aéronautes, qui n'avaient pas eu le temps de s'accrocher aux cordages. Presque au même instant, un coup de canon tonna au-dessus de l'océan, et un obusier passa en sifflant à trois mètres seulement du côté bâbord du navire, explosant à six cents pas devant lui.
« Des coquins ! cria O'Donnell. "Si j'avais une douzaine d'obus, je raserais ton navire comme un ponton."
Le ballon a continué à s'élever avec une grande rapidité. Elle passa les mille mètres, puis les deux mille, et s'arrêta aux deux mille trois cents. Des cris de fureur résonnèrent sur l'océan, suivis de trois détonations et d'un vif feu de mousqueterie ; mais maintenant le ballon était hors de portée, et ni canons ni balles de carabine ne pouvaient l'atteindre.
"Ouah!" s'exclama l'Irlandais en essuyant la sueur froide de son front. « Cinq minutes de retard et nous étions perdus ! Vous voyez, monsieur Kelly, dans quel danger vous mettez-vous à cause de moi ?
« Que serait un voyage sans émotions ? dit l'ingénieur. « Par Bacchus ! Ces anglais sont très durs avec nous ! Mais ils vont bientôt se fatiguer."
"Quel genre de navire ont-ils jamais, pour nous avoir rattrapés à nouveau?"
"Un navire qui tourne à quinze ou seize nœuds à l'heure."
"Mais nous avons tourné plus qu'eux."
« Mais le vent nous a repoussés vers les côtes américaines. Si le courant n'avait pas changé de direction, ce navire serait maintenant si loin que nous perdrions tout espoir de nous atteindre. Il nous a rencontrés par pure coïncidence.
« Heureusement, vous l'avez repéré à temps. Est-il toujours à nos trousses ?
« Je vois ses feux de position là-bas ; mais ils sont déjà très loin.
« Allons-nous toujours vers le nord-ouest ?
"...Mais...Non : nous avons retrouvé notre courant et naviguons vers le nord-est !"
"Vers l'Europe !"
« Oui, O'Donnell. Je recommence à espérer."
L'aérostat, s'étant levé pour décharger ces cinquante kilogrammes de lest, avait en effet trouvé ce grand courant d'air que l'ingénieur avait découvert, et qui semblait souffler constamment vers le nord-est. Tandis que l'attention des aéronautes était dirigée vers le navire de guerre, les deux immenses fuseaux avaient dévié, et fuyaient maintenant dans la première direction avec une vitesse de soixante milles à l'heure, avançant dans cette énorme étendue d'eau, qui était teintée de premières lueurs de l'aube. Le navire de guerre, impuissant à lutter contre la vitesse extraordinaire des deux ballons, avait cessé sa canonnade. En quelques minutes, il était devenu une tache sombre à peine distinguable à la surface de l'Atlantique.
Bientôt même ses phares devaient disparaître.
Pendant ce temps, le soleil était sur le point de se lever à l'horizon oriental. La lumière blanche était devenue rose, les étoiles pâlissaient rapidement, se mêlant à ces premières vagues rougeâtres ; puis le premier rayon s'éleva soudain là où l'océan semblait s'unir au ciel, et l'eau étincelait, s'éclaboussant de paillettes d'or d'un superbe effet, tandis que la surface des ballons devenait violette. Les dernières ténèbres disparurent sous cette soudaine invasion des rayons : les étoiles semblèrent se confondre instantanément, et les eaux reprirent leur teinte verdâtre, émeraude, alternant avec des couches d'un bleu profond.
L'ingénieur a scruté l'horizon pour voir si des navires étaient en vue, ou si des terres pouvaient être vues vers le nord-est. L'océan était désert et aucune île ou continent n'était visible dans aucune direction.
Seuls les oiseaux marins tournaient au-dessus de la surface bleue, plongeant de temps en temps dans les flots pour saisir les poissons qui osaient se montrer.
On apercevait de nombreux pétrels, ces funèbres oiseaux d'orage qu'on rencontre sous toutes les latitudes, quelques frégates au vol rapide comme l'éclair et plusieurs couples d'alcyons. De temps en temps, nous voyions aussi des centaines de ces poissons étranges, appelés dactlottes ou poissons volants, bondissant hors des vagues, volant sur vingt ou trente mètres puis retombant, certains d'un bon pied de long, très laids, d'une couleur brun rougeâtre. , les nageoires noires , coiffées d'une sorte de casque hérissé de dards, et d'autres d'à peine vingt centimètres de long et à la peau bleu argenté. Ils s'élevaient de divers côtés, se croisaient dans tous les sens, faisaient des efforts prodigieux pour se maintenir en l'air, mais retombaient dès que leurs nageoires se desséchaient.
Sans doute, ces misérables habitants de l'océan étaient attaqués par d'autres poissons plus puissants et plus voraces.
"C'est une honte de ne plus avoir de filet", a déclaré O'Donnell.
"Je prendrais volontiers un poisson rôti au petit-déjeuner."
"Tu oublies que nous sommes à dix mille mètres et que nous n'avons pas de cuisine, glouton ?" demanda l'ingénieur.
« Vous avez raison, monsieur Kelly. J'ai oublié que nous n'avons pas de feu et que même si nous en avions, il serait dangereux de l'allumer. Mais, par mille diables, il y a mille poissons là-bas.
"Est-ce que ça vous surprend?"
"Non, car je sais que les poissons sont très prolifiques et qu'ils pondent des centaines de novas."
"Même des milliers, et certains même des millions."
« Je suppose que les harengs seront les plus fructueux. Je sais que dans les baies de ma patrie, ils se rassemblent en bancs immenses."
"Vous êtes trompé, car le hareng moyen ne donne que trois mille œufs."
"Est-ce que cela vous semble trop peu?"
"Et qu'en est-il de la morue qui en engendre sept millions?"
« Par Jupiter !
"Et du poisson lyre, qui pond de vingt à trente?"
« Trente millions d'œufs ! s'exclama O'Donnell. "'Quelle famille doit sortir d'une paire de ces poissons!'
« On pense qu'ils sont les plus prolifiques de tous. Cependant, il y en a un qui, en raison de sa petite taille, peut être calculé comme plus fertile que le poisson-lyre : c'est Pleuronectes flexus, qui est petit, ressemblant à la soi-disant plie et peut produire jusqu'à un million et demi d'œufs.
Pendant qu'ils causaient ainsi, le Washington, qui flottait au milieu d'une mer de lumière, commençait à s'élever vers les régions supérieures de l'atmosphère.
Déjà ses plis avaient peu à peu disparu et ses surfaces s'étaient étendues sous l'effort de l'hydrogène que la chaleur solaire dilatait, augmentant considérablement sa force d'ascension, devenue plus grande à cause de ce jet de lest.
A dix heures, il avait déjà grimpé à 3600 mètres et ne s'était toujours pas arrêté. O'Donnell, qui n'était encore au courant de rien, mais qui sentait grandir le froid déjà presque glacial, regarda autour de lui, pensant que le ballon était entré dans quelque nuage de glaçons ; mais l'atmosphère était d'une clarté admirable.
"Où nous sommes?" des églises. « Avons-nous approché les régions polaires à notre insu ?
« Non : nous continuons toujours vers le nord-est, en suivant le 48e parallèle » répondit l'ingénieur. « Cette baisse de température vient de notre altitude. Regardez le baromètre : nous sommes déjà à 3700 mètres.
"Est-ce que le ballon veut s'échapper vers la lune?"
"Ça va s'arrêter. Ne doutez pas."
"Plus tu montes haut, plus il fait froid ?"
"Oui, et l'air devient si rare qu'il tue les imprudents qui osent monter trop haut."
« Et pour quelles raisons ?
« Pour la diminution de la tension en oxygène, qui à ces hauteurs ne pénètre plus dans le sang et par conséquent dans les tissus en quantité suffisante pour maintenir les combustions vitales dans leur état énergétique normal. A la hauteur où nous sommes, ton pouls doit déjà être à quatre-vingts battements par minute, et tu dois sentir un début de nausée.
"En effet, je me sens un peu mal, monsieur Kelly."
« Si la montée continue, votre ventre va commencer à gonfler, votre visage va se congestionner et vous aurez aussi des vertiges. Au-dessus, c'est la mort, mais nous ne toucherons pas à cette zone mortelle.
« Je l'espère, monsieur Kelly, si ce n'est pour moi, du moins pour vous. Dites-moi : y a-t-il des aéronautes qui ont osé aller jusque-là ?
« Oui, et certains ne sont jamais revenus vivants. Les premiers qui sautèrent hardiment dans les espaces célestes pour vérifier jusqu'à quelle hauteur l'air était respirable pour l'homme furent Robertson et Lhoêst, qui en 1803 parvinrent à atteindre, semble-t-il, 7000 mètres. On a alors dit que la tête de Robertson était si enflée qu'il ne pouvait plus mettre de chapeau; mais je considère que c'est un mensonge.
En 1804, Gay-Lussac atteint même les 7 000 ; avoir des nausées, des étourdissements et un principe d'étouffement ; mais il revient vivant. Darral et Bixio en 1850 ont également touché les 7000 mètres. En 1850, Gaisher et Coxwell ont affirmé avoir atteint 10 000 mètres. Le premier s'évanouit ; mais le second, bien qu'il ne puisse pas se servir de ses mains car le froid intense les avait gelées, réussit à saisir la corde de la soupape de décharge avec ses dents, obligeant le ballon à redescendre.
Mais je suis d'avis qu'ils n'ont pas atteint cette hauteur, et beaucoup d'aéronautes aussi. S'ils étaient allés aussi haut, ils ne seraient pas revenus vivants sur terre.
L'ascension la plus dramatique et la plus terrible fut celle du Zénith, qui coûta la vie à deux jeunes aéronautes audacieux, Croce-Spinelli, Italien naturalisé français, et Silvel. Déjà en 1874, encouragés et aidés par la Société Française de Navigation Aérienne, ils avaient effectué une première ascension, atteignant 7300 mètres. Le 15 avril 1875, le Zénith part en ballon, en compagnie de Tissandier, un aéronaute qui a déjà effectué plus de vingt ascensions. L'aérostat, continuellement délesté par le lest qu'il emportait, s'élançait rapidement vers les solitudes glacées des grandes hauteurs. Le froid les engourdissait, la nausée les gagnait, le vertige les prenait ; mais ils ont courageusement continué à grimper. A 8000 mètres Croce-Spinelli et Silvel, bien qu'ils respiraient fréquemment l'oxygène qu'ils avaient apporté avec eux, tombèrent; mais Tissandier résistait encore et continuait ses observations. A 8600 mètres le Zénith s'arrêta, puis redescendit ; mais il emportait avec lui deux cadavres : Croce-Spinelli et Silvel étaient morts ! Qu'en dites-vous, O'Donnell ?"
L'Irlandais, qui jusque-là était assis à sa gauche, à califourchon sur un banc du bateau, ne répondit rien. L'ingénieur se tourna vers lui et le vit affaissé, comme s'il était tombé subitement dans un évanouissement ou un sommeil irrésistible.
Il regarda vers l'arrière et vit Simone qui semblait également endormie.
"Diable!" il s'est excalmé. "Où sommes-nous?"
Il jeta un coup d'œil au baromètre : il indiquait 4300 mètres. "C'est trop," murmura-t-il. « Juste quelques centaines de mètres plus haut, et ces hommes, peu habitués aux ascensions, dormiront à jamais. Il a saisi les deux cordes qui menaient aux soupapes de décharge et a donné un coup de remorqueur. Soudain, un crépitement se fit entendre au-dessus de la tête et une forte odeur d'hydrogène se répandit tout autour.
"Ça suffit," dit-il une demi-minute plus tard. "C'est trop précieux pour être consommé." Le Washington, bien que légèrement saigné, descendait lentement dans les régions plus respirables. En dix minutes il atteint 3600 mètres et là il stoppe sa descente. O'Donnell ouvrit les yeux, bâillant comme un ours qui n'a pas dormi depuis une semaine.
« Que pensez-vous du sort malheureux de Croce-Spinelli et de Silvel ? lui demanda Kelly, avec un sourire légèrement malicieux.
"Silvel ! Croce-Spinelli !..." s'écria O'Donnell en regardant l'ingénieur avec de grands yeux. « Es-tu un sorcie
"Oui, des montgolfières, des ascensions d'un certain Tissandier et... Mais pourquoi riez-vous ?"
"Parce que tu n'as rien rêvé de tout cela, mais tu l'as entendu de mes lèvres et tu t'es endormi pendant que je te racontais cette ascension dramatique."
« Je me suis endormi, moi !
« Oui, O'Donnell, mais à cause de la hauteur du Washington et Simone, qui commence à peine à ouvrir les yeux, vous a tenu compagnie. Comment allez-vous?"
"Très bien : en fait j'ai faim comme un loup."
"Bon signe", a déclaré Kelly en riant. "Avec la descente, les perturbations dangereuses causées par des hauteurs excessives disparaissent soudainement."
« Il doit en être ainsi, monsieur Ned ; mais il est clair que les ascensions ne sont pas faites pour moi, ni pour Simone.



 

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