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XII: L'occhio e Papiano -
La tragedia d'Oreste in un teatrino di marionette! - venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. - Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis. - La tragedia d'Oreste? - Già! D'après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l'Elettra. Ora senta un po, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei. - Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle. - Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo. - E perché? - Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe li con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta. E se ne andò, ciabattando. Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l'opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa. L'immagine della marionetta d'Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: « Beate le marionette, » sospirai, « su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato. « E il prototipo di queste marionette, caro signor Anselmo, » seguitai a pensare, « voi l'avete in casa, ed è il vostro indegno genero, Papiano. Chi più di lui pago del cielo di cartapesta, basso basso, che gli sta sopra, comoda e tranquilla dimora di quel Dio proverbiale, di maniche larghe, pronto a chiuder gli occhi e ad alzare in remissione la mano; di quel Dio che ripete sonnacchioso a ogni marachella: - Ajutati, ch'io t'ajuto -? E s'ajuta in tutti i modi il vostro Papiano. La vita per lui è quasi un gioco d'abilità. E come gode a cacciarsi in ogni intrigo: alacre, intraprendente, chiacchierone! » Aveva circa quarant'anni, Papiano, ed era alto di statura e robusto di membra: un po' calvo, con un grosso pajo di baffi brizzolati appena appena sotto il naso, un bel nasone dalle narici frementi; occhi grigi, acuti e irrequieti come le mani. Vedeva tutto e toccava tutto. Mentre, per esempio, stava a parlar con me, s'accorgeva - non so come - che Adriana, dietro a lui, stentava a pulire e a rimettere a posto qualche oggetto nella camera, e subito, assaettandosi: - Pardon! Correva a lei, le toglieva l'oggetto dalle mani: - No, figliuola mia, guarda: si fa cosi! E lo ripuliva lui, lo rimetteva a posto lui, e tornava a me. Oppure s'accorgeva che il fratello, il quale soffriva di convulsioni epilettiche, « s'incantava », e correva a dargli schiaffetti su le guance, biscottini sul naso: - Scipione! Scipione! O gli soffiava in faccia, fino a farlo rinvenire. Chi sa quanto mi ci sarei divertito, se non avessi avuto quella maledetta coda di paglia! Certo egli se ne accorse fin dai primi giorni, o - per lo meno - me la intravide. Cominciò un assedio fitto fitto di cerimonie, ch'eran tutte uncini per tirarmi a parlare. Mi pareva che ogni sua parola, ogni sua domanda, fosse pur la più ovvia, nascondesse un'insidia. Non avrei voluto intanto mostrar diffidenza per non accrescere i suoi sospetti; ma l'irritazione ch'egli mi cagionava con quel suo tratto da vessatore servizievole m'impediva di dissimularla bene. L'irritazione mi proveniva anche da altre due cause interne e segrete. Una era questa: ch'io, senza aver commesso cattive azioni, senz'aver fatto male a nessuno, dovevo guardarmi così, davanti e dietro, umoroso e sospettoso, come se avessi perduto il diritto d'esser lasciato in pace. L'altra, non avrei voluto confessarla a me stesso, e appunto perciò m'irritava più fortemente, sotto sotto. Avevo un bel dirmi: « Stupido! vattene via, levati dai piedi codesto seccatore! » Non me ne andavo: non potevo più andarmene. La lotta che facevo contro me stesso, per non assumer coscienza di ciò che sentivo per Adriana, m'impediva intanto di riflettere alle conseguenze della mia anormalissima condizione d'esistenza rispetto a questo sentimento. E restavo lì, perplesso, smanioso nella mal contentezza di me, anzi in orgasmo continuo, eppur sorridente di fuori. Di ciò che m'era occorso di scoprire quella sera, nascosto dietro la persiana, non ero ancor venuto in chiaro. Pareva che la cattiva impressione che Papiano aveva ricevuto di me alle notizie della signorina Caporale, si fosse cancellata subito alla presentazione. Egli mi tormentava, è vero, ma come se non potesse farne a meno; non certo col disegno segreto di farmi andar via; anzi, al contrario! Che macchinava? Adriana, dopo il ritorno di lui, era diventata triste e schiva, come nei primi giorni. La signorina Silvia Caporale dava del lei a Papiano, almeno in presenza degli altri, ma quell'arcifanfano dava del tu a lei, apertamente; arrivava finanche a chiamarla Rea Silvia; e io non sapevo come interpretare queste sue maniere confidenziali e burlesche. Certo quella disgraziata non meritava molto rispetto per il disordine della sua vita, ma neanche d'esser trattata a quel modo da un uomo che non aveva con lei né parentela né affinità. Una sera (c'era la luna piena, e pareva giorno), dalla mia finestra la vidi, sola e triste, là, nel terrazzino, dove ora ci riunivamo raramente, e non più col piacere di prima, poiché v'interveniva anche Papiano che parlava per tutti. Spinto dalla curiosità, pensai d'andarla a sorprendere in quel momento d'abbandono. Trovai, al solito, nel corridojo, presso all'uscio della mia camera, asserpolato sul baule, il fratello di Papiano, nello stesso atteggiamento in cui lo avevo veduto la prima volta. Aveva eletto domicilio lassù, o faceva la sentinella a me per ordine del fratello? La signorina Caporale, nel terrazzino, piangeva. Non volle dirmi nulla, dapprima; si lamentò soltanto d'un fierissimo mal di capo. Poi, come prendendo una risoluzione improvvisa, si voltò a guardarmi in faccia, mi porse una mano e mi domandò: - E mio amico lei? - Se vuol concedermi quest'onore... - le risposi, inchinandomi. - Grazie. Non mi faccia complimenti, per carità! Se sapesse che bisogno ho io d'un amico, d'un vero amico, in questo momento! Lei dovrebbe comprenderlo, lei che è solo al mondo, come me... Ma lei è uomo! Se sapesse... se sapesse... Addentò il fazzolettino che teneva in mano, per impedirsi di piangere; non riuscendovi, lo strappò a più riprese, rabbiosamente. - Donna, brutta e vecchia, - esclamò: - tre disgrazie, a cui non c'è rimedio! Perché vivo io? - Si calmi, via, - la pregai, addolorato. - Perché dice cosi, signorina? Non mi riuscì dir altro. - Perché... - proruppe lei, ma s'arrestò d'un tratto. - Dica, - la incitai. - Se ha bisogno d'un amico... Ella si portò agli occhi il fazzolettino lacerato, e... - Io avrei piuttosto bisogno di morire! - gemette con accoramento così profondo e intenso, che mi sentii subito un nodo d'angoscia alla gola. Non dimenticherò mai più la piega dolorosa di quella bocca appassita e sgraziata nel proferire quelle parole, né il fremito del mento su cui si torcevano alcuni peluzzi neri. - Ma neanche la morte mi vuole, - riprese. - Niente... scusi, signor Meis! Che ajuto potrebbe darmi lei? Nessuno. Tutt'al più, di parole... si, un po' di compassione. Sono orfana, e debbo star qua, trattata come... forse lei se ne sarà accorto. E non ne avrebbero il diritto, sa! Perché non mi fanno mica l'elemosina... E qui la signorina Caporale mi parlò delle sei mila lire scroccatele da Papiano, a cui io ho già accennato altrove. Per quanto il cordoglio di quell'infelice m'interessasse, non era certo quello che volevo saper da lei. Approfittandomi (lo confesso) dell'eccitazione in cui ella si trovava, fors'anche per aver bevuto qualche bicchierino di più, m'arrischiai a domandarle: - Ma, scusi, signorina, perché lei glielo ha dato, quel danaro? - Perché? - e strinse le pugna. - Due perfidie, una più nera dell'altra! Gliel'ho dato per dimostrargli che avevo ben compreso che cosa egli volesse da me. Ha capito? Con la moglie ancora in vita, costui... - Ho capito. - Si figuri, - riprese con foga. - La povera Rita... - La moglie? - Sì Rita, la sorella d'Adriana... Due anni malata, tra la vita e la morte... Si figuri, se io... Ma già, qua lo sanno, com'io mi comportai; lo sa Adriana, e perciò mi vuol bene; lei sì, poverina. Ma come son rimasta io ora? Guardi: per lui, ho dovuto anche dar via il pianoforte, ch'era per me... tutto, capirà! non per la mia professione soltanto: io parlavo col mio pianoforte! Da ragazza, all'Accademia, componevo; ho composto anche dopo, diplomata; poi ho lasciato andare. Ma quando avevo il pianoforte, io componevo ancora, per me sola, all'improvviso; mi sfogavo... m'inebriavo fino a cader per terra, creda, svenuta, in certi momenti. Non so io stessa che cosa m'uscisse dall'anima: diventavo una cosa sola col mio strumento, e le mie dita non vibravano più su una tastiera: io facevo piangere e gridare l'anima mia. Posso dirle questo soltanto, che una sera (stavamo, io e la mamma, in un mezzanino) si raccolse gente, giù in istrada, che m'applaudi alla fine, a lungo. E io ne ebbi quasi paura. - Scusi, signorina, - le proposi allora, per confortarla in qualche modo. - E non si potrebbe prendere a nolo un pianoforte? Mi piacerebbe tanto, tanto, sentirla sonare; e se lei... - No, - m'interruppe, - che vuole che suoni io più! E finita per me. Strimpello canzoncine sguajate. Basta. E finita... - Ma il signor Terenzio Papiano, - m'arrischiai di nuovo a domandare, - le ha promesso forse la restituzione di quel denaro? - Lui? - fece subito, con un fremito d'ira, la signorina Caporale. - E chi gliel'ha mai chiesto! Ma sì, me lo promette adesso, se io lo ajuto... Già! Vuol essere ajutato da me, proprio da me; ha avuto la sfrontatezza di propormelo, cosi, tranquillamente... - Ajutarlo? In che cosa? - In una nuova perfidia! Comprende? Io vedo che lei ha compreso. - Adri... la... la signorina Adriana? - balbettai. - Appunto. Dovrei persuaderla io! lo, capisce? - A sposar lui? - S'intende. Sa perché? Ha, o piuttosto, dovrebbe avere quattordici o quindici mila lire di dote quella povera disgraziata: la dote della sorella, che egli doveva subito restituire al signor Anselmo, poiché Rita è morta senza lasciar figliuoli. Non so che imbrogli abbia fatto. Ha chiesto un anno di tempo per questa restituzione. Ora spera che... Zitto... ecco Adriana! Chiusa in sé e più schiva del solito, Adriana s'appressò a noi: cinse con un braccio la vita della signorina Caporale e accennò a me un lieve saluto col capo. Provai, dopo quelle confidenze, una stizza violenta nel vederla così sottomessa e quasi schiava dell'odiosa tirannia di quel cagliostro. Poco dopo però, comparve nel terrazzino, come un'ombra, il fratello di Papiano. - Eccolo, - disse piano la Caporale ad Adriana. Questa socchiuse gli occhi, sorrise amaramente, scosse il capo e si ritrasse dal terrazzino, dicendomi: - Scusi, signor Meis. Buona sera. - La spia, - mi susurrò la signorina Caporale, ammiccando. - Ma di che teme la signorina Adriana? - mi scappò detto, nella cresciuta irritazione. - Non capisce che, facendo così, dà più ansa a colui da insuperbire e da far peggio il tiranno? Senta, signorina, io le confesso che provo una grande invidia per tutti coloro che sanno prender gusto e interessarsi alla vita, e li ammiro. Tra chi si rassegna a far la parte della schiava e chi si assume, sia pure con la prepotenza, quella del padrone, la mia simpatia è per quest'ultimo. La Caporale notò l'animazione con cui avevo parlato e, con aria di sfida, mi disse: - E perché allora non prova a ribellarsi lei per primo ? - Io? - Lei, lei, - affermò ella, guardandomi negli occhi, aizzosa. - Ma che c'entro io? - risposi. - Io potrei ribellarmi in una sola maniera: andandomene. - Ebbene, - concluse maliziosamente la signorina Caporale, - forse questo appunto non vuole Adriana. - Ch'io me ne vada? Quella fece girar per aria il fazzolettino sbrendolato e poi se lo raccolse intorno a un dito sospirando: - Chi sa! Scrollai le spalle. - A cena! a cena! - esclamai; e la lasciai lì in asso, nel terrazzino. Per cominciare da quella sera stessa, passando per il corridojo, mi fermai innanzi al baule, su cui Scipione Papiano era tornato ad accoccolarsi, e: - Scusi, - gli dissi, - non avrebbe altro posto dove star seduto più comodamente? Qua lei m'impiccia. Quegli mi guardò balordo, con gli occhi languenti, senza scomporsi. - Ha capito? - incalzai, scotendolo per un braccio. Ma come se parlassi al muro! Si schiuse allora l'uscio in fondo al corridojo, ed apparve Adriana. - La prego, signorina, - le dissi, - veda un po' di fare intender lei a questo poveretto che potrebbe andare a sedere altrove. - E malato, - cercò di scusarlo Adriana. - E però che è malato! - ribattei io. - Qua non sta bene: gli manca l'aria... e poi, seduto su un baule... Vuole che lo dica io al fratello? - No no, - s'affrettò a rispondermi lei. - Glielo dirò io, non dubiti. - Capirà, - soggiunsi. - Non sono ancora re, da avere una sentinella alla porta. Perdetti, da quella sera in poi, il dominio di me stesso; cominciai a sforzare apertamente la timidezza di Adriana; chiusi gli occhi e m'abbandonai, senza più riflettere, al mio sentimento. Povera cara mammina! Ella si mostrò dapprincipio come tenuta tra due, tra la paura e la speranza. Non sapeva affidarsi a questa, indovinando che il dispetto mi spingeva; ma sentivo d'altra parte che la paura in lei era pur cagionata dalla speranza fino a quel momento segreta e quasi incosciente di non perdermi; e perciò, dando io ora a questa sua speranza alimento co' miei nuovi modi risoluti, non sapeva neanche cedere del tutto alla paura. Questa sua delicata perplessità, questo riserbo onesto m'impedirono intanto di trovarmi subito a tu per tu con me stesso e mi fecero impegnare sempre più nella sfida quasi sottintesa con Papiano. M'aspettavo che questi mi si piantasse di fronte fin dal primo giorno, smettendo i soliti complimenti e le solite cerimonie. Invece, no. Tolse il fratello dal posto di guardia, lì sul baule, come io volevo, e arrivò finanche a celiar su l'aria impacciata e smarrita d'Adriana in mia presenza. - La compatisca, signor Meis: è vergognosa come una monacella la mia cognatina! Questa inattesa remissione, tanta disinvoltura m'impensierirono. Dove voleva andar a parare? Una sera me lo vidi arrivare in casa insieme con un tale che entrò battendo forte il bastone sul pavimento, come se, tenendo i piedi entro un pajo di scarpe di panno che non facevan rumore, volesse sentire così, battendo il bastone, ch'egli camminava. - Dôva ca l'è stô me car parent? - si mise a gridare con stretto accento torinese, senza togliersi dal capo il cappelluccio dalle tese rialzate, calcato fin su gli occhi a sportello, appannati dal vino, né la pipetta dalla bocca, con cui pareva stesse a cuocersi il naso più rosso di quello della signorina Caporale. - Dôva ca l'è stô me car parent? - Eccolo, - disse Papiano, indicandomi; poi rivolto a me: - Signor Adriano, una grata sorpresa! Il signor Francesco Meis, di Torino, suo parente. - Mio parente? - esclamai, trasecolando. Quegli chiuse gli occhi, alzò come un orso una zampa e la tenne un tratto sospesa, aspettando che io gliela stringessi. Lo lasciai lì, in quell'atteggiamento, per contemplarlo un pezzo; poi: - Che farsa è codesta? - domandai. - No, scusi, perché? - fece Terenzio Papiano. - Il signor Francesco Meis mi ha proprio assicurato che è suo... - Cusin, - appoggiò quegli, senza aprir gli occhi. - Tut i Meis i sôma parent. - Ma io non ho il bene di conoscerla! - protestai. - Oh ma côsta ca l'è bela! - esclamò colui. - L'è propi për lon che mi't son vnù a trôvè. - Meis? di Torino? - domandai io, fingendo di cercar nella memoria. - Ma io non son di Torino! - Come! Scusi, - interloquì Papiano. - Non mi ha detto che fino a dieci anni lei stette a Torino? - Ma si! - riprese quegli allora, seccato che si mettesse in dubbio una cosa per lui certissima. - Cusin, cusin! Questo signore qua... come si chiama? - Terenzio Papiano, a servirla. - Terenziano: a l'à dime che to pare a l'è andàit an America: cosa ch'a veul di' lon? a veul di' che ti t' ses fieul 'd barba Antoni ca l'è andàit 'ntla America. E nui sôma cusin. - Ma se mio padre si chiamava Paolo... - Antoni! - Paolo, Paolo, Paolo. Vuol saperlo meglio di me? Colui si strinse nelle spalle e stirò in sù la bocca: - A m'smiava Antôni, - disse stropicciandosi il mento ispido d'una barba di quattro giorni almeno, quasi tutta grigia. - 'I veui nen côtradite: sarà prô Paôlo. I ricordo nen ben, perché mi' i l'hai nen conôssulo. Pover'uomo! Era in grado di saperlo meglio di me come si chiamasse quel suo zio andato in America; eppure si rimise, perché a ogni costo volle esser mio parente. Mi disse che suo padre, il quale si chiamava Francesco come lui, ed era fratello di Antonio... cioè di Paolo, mio padre, era andato via da Torino, quand'egli era ancor masnà, di sette anni, e che - povero impiegato - aveva vissuto sempre lontano dalla famiglia, un po' qua, un po' là. Sapeva poco, dunque, dei parenti, sia paterni, sia materni: tuttavia, era certo, certissimo d'esser mio cugino. Ma il nonno, almeno, il nonno, lo aveva conosciuto? Volli domandarglielo. Ebbene, sì: lo aveva conosciuto, non ricordava con precisione se a Pavia o a Piacenza. - Ah si? proprio conosciuto? e com'era? Era... non se ne ricordava lui, franc nen. - A son passà trant'ani... Non pareva affatto in mala fede; pareva piuttosto uno sciagurato che avesse affogato la propria anima nel vino, per non sentir troppo il peso della noja e della miseria. Chinava il capo, con gli occhi chiusi, approvando tutto ciò ch'io dicevo per pigliarmelo a godere; son sicuro che se gli avessi detto che da bambini noi eravamo cresciuti insieme e che parecchie volte io gli avevo strappato i capelli, egli avrebbe approvato allo stesso modo. Non dovevo mettere in dubbio soltanto una cosa, che noi cioè fossimo cugini: su questo non poteva transigere: era ormai stabilito, ci s'era fissato, e dunque basta. A un certo punto, però, guardando Papiano e vedendolo gongolante, mi passò la voglia di scherzare. Licenziai quel pover'uomo mezzo ubriaco, salutandolo : - Caro parente! - e domandai a Papiano, con gli occhi fissi negli occhi, per fargli intender bene che non ero pane pe' suoi denti: - Mi dica adesso dov'è andato a scovare quel bel tomo. - Scusi tanto, signor Adriano ! - premise quell'imbroglione, a cui non posso fare a meno di riconoscere una grande genialità. - Mi accorgo di non essere stato felice... - Ma lei è felicissimo, sempre! - esclamai io. - No, intendo: di non averle fatto piacere. Ma creda pure che è stata una combinazione. Ecco qua: son dovuto andare questa mattina all'Agenzia delle imposte, per conto del marchese, mio principale. Mentr'ero là, ho sentito chiamar forte: « Signor Meis! Signor Meis! ». Mi volto subito, credendo che vi sia anche lei, per qualche affare, chi sa avesse, dico, bisogno di me, sempre pronto a servirla. Ma che! chiamavano a questo bel tomo, come lei ha detto giustamente; e allora, così... per curiosità, mi avvicinai e gli domandai se si chiamasse proprio Meis e di che paese fosse, poiché io avevo l'onore e il piacere d'ospitare in casa un signor Meis... Ecco com'è andata! Lui mi ha assicurato che lei doveva essere suo parente, ed è voluto venire a conoscerla... - All'Agenzia dell'imposte? - Sissignore, è impiegato là: ajuto-agente. Dovevo crederci? Volli accertarmene. Ed era vero, sì; ma era vero del pari che Papiano, insospettito, mentre io volevo prenderlo di fronte, là, per contrastare nel presente a' suoi segreti armeggii, mi sfuggiva, mi sfuggiva per ricercare invece nel mio passato e assaltarmi così quasi a le spalle. Conoscendolo bene, avevo pur troppo ragione di temere che egli, con quel fiuto nel naso, fosse bracco da non andare a lungo a vento: guaj se fosse riuscito ad aver sentore della minima traccia: l'avrebbe certo seguitata fino al molino della Stìa. Figurarsi dunque il mio spavento, quando, ivi a pochi giorni, mentre me ne stavo in camera a leggere, mi giunse dal corridojo, come dall'altro mondo, una voce, una voce ancor viva nella mia memoria. - Agradecio Dio, ántes che me la son levada de sobre! Lo Spagnuolo ? quel mio spagnoletto barbuto e atticciato di Montecarlo? colui che voleva giocar con me e col quale m'ero bisticciato a Nizza?... Ah, perdio! Ecco la traccia! Era riuscito a scoprirla Papiano! Balzai in piedi, reggendomi al tavolino per non cadere, nell'improvviso smarrimento angoscioso: stupefatto, quasi atterrito, tesi l'orecchio, con l'idea di fuggire non appena quei due - Papiano e lo Spagnuolo (era lui, non c'era dubbio: lo avevo veduto nella sua voce) - avessero attraversato il corridojo. Fuggire? E se- Papiano, entrando, aveva domandato alla serva s'io fossi in casa? Che avrebbe pensato della mia fuga? Ma d'altra parte, se già sapeva ch'io non ero Adriano Meis? Piano! Che notizia poteva aver di me quello Spagnuolo? Mi aveva veduto a Montecarlo. Gli avevo io detto, allora, che mi chiamavo Mattia Pascal? Forse! Non ricordavo... Mi trovai, senza saperlo, davanti allo specchio, come se qualcuno mi ci avesse condotto per mano. Mi guardai. Ah quell'occhio maledetto ! Forse per esso colui mi avrebbe riconosciuto. Ma come mai, come mai Papiano era potuto arrivare fin là, fino alla mia avventura di Montecarlo? Questo più d'ogni altro mi stupiva. Che fare intanto? Niente. Aspettar lì che ciò che doveva avvenire avvenisse. Non avvenne nulla. E pur non di meno la paura non mi passò, neppure la sera di quello stesso giorno, allorché Papiano, spiegandomi il mistero per me insolubile e terribile di quella visita, mi dimostrò ch'egli non era affatto su la traccia del mio passato, e che solo il caso, di cui da un pezzo godevo i favori, aveva voluto farmene un altro, rimettendomi tra i piedi quello Spagnuolo, che forse non si ricordava più di me né punto né poco. Secondo le notizie che Papiano mi diede di lui, io, andando a Montecarlo, non potevo non incontrarvelo, poich'egli era un giocatore di professione. Strano era che lo incontrassi ora a Roma, o piuttosto, che io, venendo a Roma, mi fossi intoppato in una casa, ove anch'egli poteva entrare. Certo, s'io non avessi avuto da temere, questo caso non mi sarebbe parso tanto strano: quante volte infatti non ci avviene d'imbatterci inaspettatamente in qualcuno che abbiamo conosciuto altrove per combinazione? Del resto, egli aveva o credeva d'avere le sue buone ragioni per venire a Roma e in casa di Papiano. Il torto era mio, o del caso che mi aveva fatto radere la barba e cangiare il nome. Circa vent'anni addietro, il marchese Giglio d'Auletta, di cui Papiano era il segretario, aveva sposato l'unica sua figliuola a don Antonio Pantogada, addetto all'Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Poco dopo il matrimonio, il Pantogada, scoperto una notte dalla polizia in una bisca insieme con altri dell'aristocrazia romana, era stato richiamato a Madrid. Là aveva fatto il resto, e forse qualcos'altro di peggio, per cui era stato costretto a lasciar la diplomazia. D'allora in poi, il marchese d'Auletta non aveva avuto più pace, forzato continuamente a mandar danaro per pagare i debiti di giuoco del genero incorreggibile. Quattr'anni fa, la moglie del Pantogada era morta, lasciando una giovinetta di circa sedici anni, che il marchese aveva voluto prendere con sé, conoscendo pur troppo in quali mani altrimenti sarebbe rimasta. Il Pantogada non avrebbe voluto lasciarsela scappare; ma poi, costretto da una impellente necessità di denaro, aveva ceduto. Ora egli minacciava senza requie il suocero di riprendersi la figlia, e quel giorno appunto era venuto a Roma con questo intento, per scroccare cioè altro danaro al povero marchese, sapendo bene che questi non avrebbe mai e poi mai abbandonato nelle mani di lui la sua cara nipote Pepita. Aveva parole di fuoco, lui, Papiano, per bollare questo indegno ricatto del Pantogada. Ed era veramente sincera quella sua collera generosa. E mentre egli parlava, io non potevo fare a meno di ammirare il privilegiato congegno della sua coscienza che, pur potendo indignarsi così, realmente, delle altrui nequizie, gli permetteva poi di farne delle simili o quasi, tranquillissimamente, a danno di quel buon uomo del Paleari, suo suocero. Intanto il marchese Giglio quella volta voleva tener duro. Ne seguiva che il Pantogada sarebbe rimasto a Roma parecchio tempo e sarebbe certo venuto a trovare in casa Terenzio Papiano, col quale doveva intendersi a meraviglia. Un incontro dunque fra me e quello Spagnuolo sarebbe stato forse inevitabile, da un giorno all'altro. Che fare? Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo specchio. In quella lastra l'immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell'occhio che solamente m'era rimasto di lui, mi parlò così: « In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! e vorresti dar la colpa a me, ancora a me, solo perché io a Nizza mi bisticciai con lo Spagnuolo. Eppure ne avevo ragione, tu lo sai. Ti pare che possa bastare per il momento il cancellarti dalla faccia l'ultima traccia di me? Ebbene, segui il consiglio della signorina Caporale e chiama il dottor Ambrosini, che ti rimetta l'occhio a posto. Poi... vedrai! »

 

XII

L’ŒIL ET PAPIANO

– La tragédie d’Oreste dans un théâtre de marionnettes ! vint m’annoncer M. Anselme Paleari. Marionnettes automatiques, de nouvelle invention. Ce soir, à huit heures et demie, rue des Préfets, numéro 54. Ce serait le cas d’y aller, monsieur Meis.

– La tragédie d’Oreste ?

– Parfaitement ! D’après Sophocle, dit l’affiche. C’est probablement l’Électre. Maintenant, écoutez un peu quelle idée bizarre me vient à l’esprit ! Si, au point culminant de l’action, exactement quand la marionnette qui représente Oreste va venger la mort de son père sur Égisthe et sa mère, on faisait une déchirure dans le ciel de papier du petit théâtre, qu’adviendrait-il ? Que ferait Oreste ? Dites-moi ?

– Je n’en sais rien, répondis-je en haussant les épaules.

– Mais c’est bien facile, monsieur Meis ! Oreste se trouverait terriblement déconcerté par ce trou dans le ciel.

– Et pourquoi ?

– Laissez-moi dire. Oreste sentirait encore les ardeurs de la vengeance, il voudrait les satisfaire avec une rage impatiente, mais ses yeux, à cet instant, s’en iraient là, à cette déchirure, d’où à présent toutes sortes de mauvaises influences pénétreraient sur la scène, et il sentirait les bras lui tomber. Oreste, en somme, deviendrait Hamlet. Toute la différence, monsieur Meis, entre la tragédie antique et la moderne, consiste en cela, croyez-moi : un trou dans le ciel de papier.

Et il s’en alla, traînant ses savates.

Des cimes nuageuses de son abstraction, M. Anselme laissait souvent rouler ainsi, comme des avalanches, ses pensées. La raison, le lien, l’opportunité de celles-ci restaient là-haut, dans les nuages, de façon qu’il devenait difficile à qui l’écoutait d’y comprendre quelque chose.

L’image de la marionnette d’Oreste, déconcertée par le trou dans le ciel, me resta toutefois quelque temps dans l’esprit : « Heureuses les marionnettes ! soupirai-je. Sur leurs têtes de bois, le faux ciel se conserve sans déchirures ! Ni perplexités anxieuses, ni gênes, ni entraves, ni ombres, ni pitié : rien ! Et elles peuvent se donner bravement et prendre goût à leur comédie et s’aimer elles-mêmes et se tenir en considération et en estime, sans souffrir jamais de vertiges, sans que la tête leur tourne, car pour leur taille et pour leurs actions, ce ciel-là est un toit proportionné. »

« Et le prototype de ces marionnettes, cher monsieur Anselme, pensai-je encore, vous l’avez chez vous, et c’est votre indigne gendre Papiano. Qui est plus que lui satisfait du ciel de carton bien bas qui se tient sur sa tête ? La vie pour lui est comme un jeu d’adresse. Et comme il jouit en se fourrant dans toutes les intrigues : vif, entreprenant, hâbleur ! »

Papiano avait environ quarante ans, était de haute taille, avec des membres robustes ; un peu chauve, avec une grosse paire de moustaches à peine grisonnantes sous un nez aux narines frémissantes ; il avait les yeux gris, aigus, inquiets comme ses mains. Il voyait tout et touchait à tout. Par exemple, tout en me parlant à moi, il s’apercevait, je ne sais comment, qu’Adrienne, derrière lui, avait de la peine à nettoyer et à remettre en place quelque objet dans la chambre, et aussitôt :

– Pardon !

Il courait à elle, lui prenait l’objet des mains :

– Non, ma fille, regarde : on fait comme cela !

Et il le nettoyait, lui, le remettait en place et revenait à moi. Ou bien il s’apercevait que son frère, qui souffrait de convulsions épileptiques, devenait hagard et il courait lui donner de petites claques sur les joues, des pichenettes sur le nez :

– Scipion ! Scipion !

Ou il lui soufflait à la figure, jusqu’à ce qu’il l’eût fait revenir.

Je m’en serais fort amusé, si je n’avais pas eu cette maudite arrière-pensée !

Certainement, il la devina, car il commença un siège en règle de cérémonies, qui étaient autant d’invites à parler. Il me semblait que ses paroles, ses questions, même les plus banales, cachaient une embûche. Je n’aurais pas voulu cependant lui montrer de défiance pour ne pas accroître ses soupçons ; mais l’irritation qu’il me causait, avec cette attitude de tourmenteur obséquieux, m’empêchait de bien dissimuler.

Mon irritation provenait aussi de deux autres causes intérieures et secrètes. La première était que, sans avoir commis de mauvaises actions, sans avoir fait de mal à personne, je devais me garder ainsi, en avant et en arrière, peureux et soupçonneux, comme si j’avais perdu le droit d’être laissé en paix. L’autre, je n’aurais pas voulu me l’avouer à moi-même, et justement pour cela elle m’irritait plus fortement, en dessous. J’avais beau me dire :

« Idiot ! Va-t’en d’ici, délivre-toi de cet ennuyeux personnage ! »

Je ne m’en allais pas ; je ne pouvais plus m’en aller.

La lutte que je soutenais contre moi-même pour ne pas prendre conscience de ce que je ressentais pour Adrienne m’empêchait cependant de réfléchir aux conséquences de ma très anormale condition d’existence, eu égard à ce sentiment. Et je restais là, perplexe, sans cesse mécontent de moi, et même dans une fièvre continuelle, et pourtant souriant au-dehors.

De ce qu’il m’était arrivé de découvrir ce soir-là, caché derrière la persienne, je n’avais pas encore pu m’éclaircir. Il semblait que la mauvaise impression que Papiano avait reçue de moi, aux renseignements de la Caporale, se fût effacée subitement à la présentation. Il me tourmentait, c’est vrai, mais comme s’il n’eût pu faire autrement, non pas certes avec le dessein secret de me faire partir : bien au contraire ! Que machinait-il ? Adrienne, après son retour, était redevenue triste et froide, comme aux premiers jours. : Mademoiselle Silvia Caporale disait vous à Papiano, au moins en présence des autres, mais Papiano souvent la tutoyait ouvertement ; il allait jusqu’à l’appeler Rhéa1 Silvia, et je ne savais comment interpréter ces manières confidentielles et burlesques. Certes, cette malheureuse ne méritait pas grand respect pour le désordre de sa vie, mais elle ne méritait pas non plus d’être traitée de cette façon par un homme qui ne lui était rien.

Un soir (la lune était pleine et il semblait qu’il fît jour), de ma fenêtre, je la vis seule et triste, là, sur la terrasse, où maintenant nous nous réunissions rarement, et non plus avec le plaisir d’autrefois, parce que Papiano y venait aussi et parlait pour tout le monde. Poussé par la curiosité, je pensai à aller la surprendre en ce moment d’abandon.

Je trouvai, comme d’habitude, dans le corridor, près de la porte de ma chambre, assis sur la malle, le frère de Papiano, dans la même attitude où je l’avais vu la première fois. Avait-il élu domicile là-dessus, ou était-il en sentinelle par ordre de son frère ?

Mademoiselle Caporale, sur la terrasse, pleurait. Elle ne voulut rien dire, d’abord ; elle se plaignit seulement d’un terrible mal de tête. Puis, comme prenant une brusque résolution, elle se tourna, me regarda en face, me tendit une main et me demanda :

– Êtes-vous mon ami ?

– Si vous voulez m’accorder cet honneur… lui répondis-je en m’inclinant.

– Merci ! Si vous saviez comme j’ai besoin d’un ami, d’un véritable ami en ce moment ! Vous devriez le comprendre, vous qui êtes seul au monde, comme moi… Mais vous êtes un homme ! Si vous saviez… si vous saviez…

Elle mordit le mouchoir qu’elle tenait à la main pour s’empêcher de pleurer ; n’y réussissant pas, elle le déchira à plusieurs reprises rageusement.

– Femme, laide et vieille ! s’écria-t-elle. Trois malheurs auxquels il n’y a pas de remède ! Pourquoi suis-je en vie ?

– Calmez-vous, voyons ! la priai-je, consterné. Pourquoi faites-vous ainsi, mademoiselle ?

Je ne pus dire autre chose.

– Parce que… éclata-t-elle.

Mais elle s’arrêta tout à coup.

– Dites ? l’incitai-je. Si vous avez besoin d’un ami…

Elle porta à ses yeux son mouchoir déchiré, et :

– J’aurais plutôt besoin de mourir ! gémit-elle avec une douleur si profonde et si intense que je me sentis tout à coup la gorge serrée d’angoisse.

Je n’oublierai jamais le pli douloureux de cette bouche flétrie et sans grâce en proférant ces paroles, ni le frémissement du menton sur lequel se tordaient quelques poils follets noirs.

– Mais la mort même ne veut pas de moi, reprit-elle. Rien… Pardon, monsieur Meis ! Quelle aide pourriez-vous me donner ? Aucune. Tout au plus un peu de compassion. Je suis orpheline, et je dois rester ici, traitée comme… Peut-être vous en êtes-vous aperçu ? Et ils n’en auraient pas le droit, vous savez ? Car ils ne me font nullement l’aumône…

Et ici mademoiselle Caporale me parla des six mille lires que lui avait escroquées Papiano, et dont j’ai déjà parlé ailleurs.

Quoique la douleur de cette malheureuse m’intéressât, ce n’était pas là, certes, ce que je voulais savoir d’elle. Profitant (je l’avoue) de l’excitation où elle se trouvait, peut-être seulement pour avoir bu un petit verre de trop, je me risquai à lui demander :

– Mais, pardon, mademoiselle ! Pourquoi le lui avez-vous donné, cet argent ?

– Pourquoi ? et elle serra les poings. Deux perfidies, l’une plus noire que l’autre ! Je le lui ai donné pour lui faire voir que j’avais bien compris ce qu’il voulait de moi. Vous avez compris ? Avec sa femme encore en vie, ce…

– J’ai compris.

– Figurez-vous ! reprit-elle avec fougue, la pauvre Rita…

– Sa femme ?

– Oui, Rita, la sœur d’Adrienne… Deux ans malade, entre la vie et la mort… Figurez-vous, si je… Mais, au surplus, on le sait ici, comment je me conduisis ; Adrienne le sait, et c’est pourquoi elle me veut du bien ; elle, oui, la pauvre petite ! Mais comment suis-je restée maintenant ? Regardez ! pour lui, j’ai dû donner jusqu’à mon piano, qui était pour moi… tout, vous comprenez ! Non pas seulement pour ma profession. Je parlais avec mon piano. Tout enfant, à l’Académie, j’écrivais de la musique ; j’en ai écrit aussi ensuite, diplômée ; puis j’ai abandonné. Mais, quand j’avais mon piano, je composais encore, pour moi seule, à l’improviste ; je m’épanchais… je m’enivrais jusqu’à tomber par terre, croyez-moi, évanouie, à certains moments. Je ne sais pas moi-même qu’est-ce qui me sortait de l’âme : je devenais une seule chose avec mon instrument, et mes doigts ne s’agitaient plus sur un clavier : je faisais pleurer et crier mon âme. Je puis vous dire seulement ceci qu’un soir (nous restions, moi et maman, à un entresol), des gens se rassemblèrent, en bas, dans la rue, qui m’applaudirent à la fin, longtemps. Et j’en eus presque peur.

– Pardon, mademoiselle ! lui proposai-je alors pour la consoler de quelque façon, ne pourrait-on pas louer un piano au mois ? J’aimerais tant, tant, à entendre jouer. Et si vous…

– Non ! m’interrompit-elle. À quoi bon jouer encore ? C’est fini pour moi ! À présent, je tapote des chansonnettes stupides, moi. C’est fini ! fini !…

– Mais monsieur Térence Papiano, me risquai-je de nouveau à demander, vous a promis peut-être de vous restituer cet argent ?

– Lui ? fit aussitôt avec un frémissement de colère mademoiselle Caporale. Et qui le lui a jamais demandé ? Mais si, il me le promet, maintenant, si je l’aide… Oui ! il a eu le front de me proposer, comme cela, tranquillement…

– L’aider ? À quoi ?

– À une nouvelle perfidie ! Comprenez-vous ? Je vois que vous avez compris.

– Adri… ma… mademoiselle Adrienne ? balbutiai-je.

– Justement. Je devrais la persuader ! Moi, entendez-vous ?

– De l’épouser ?

– Naturellement. Savez-vous pourquoi ? Elle a, ou plutôt devrait avoir quatorze ou quinze mille lires de dot, cette pauvre infortunée ! La dot de sa sœur, qu’il devait sur-le-champ restituer à monsieur Anselme, car Rita n’a pas eu d’enfants. Je ne sais ce qu’il a manigancé. Il a demandé un an pour cette restitution. Maintenant, j’espère que… Chut ! voici Adrienne !

Enfermée en elle-même et plus froide que d’ordinaire, Adrienne s’approcha de nous ; elle entoura d’un bras la taille de mademoiselle Caporale et me fit un léger salut de la tête. J’éprouvai, après ces confidences, une irritation violente à la voir ainsi soumise et comme esclave de l’odieuse tyrannie de ce Cagliostro. Mais, presque aussitôt apparut, comme une ombre, sur la terrasse, le frère de Papiano.

– Le voici ! dit tout bas la Caporale à Adrienne.

Celle-ci ferma à demi les yeux, sourit amèrement, secoua la tête et se retira de la terrasse, en me disant :

– Excusez, monsieur Meis ! Bonsoir !

– L’espion ! me susurra mademoiselle Caporale en m’avertissant des yeux.

– Mais de quoi a peur mademoiselle Adrienne ? m’échappa-t-il dans mon irritation croissante. Ne comprend-elle pas qu’en faisant ainsi, elle donne beau jeu à cet homme pour faire le tyran de plus belle ? Écoutez ! mademoiselle : je vous avoue que j’éprouve une grande envie pour tous ceux qui savent s’intéresser à la vie, et je les admire. Entre celui qui se résigne à jouer le rôle de victime et celui qui assume, fût-ce avec cruauté, celui de tyran, ma sympathie est pour ce dernier.

La Caporale remarqua mon animation, et, avec un air de défi, me dit :

– Et pourquoi alors n’essayez-vous pas de vous révolter, vous, tout le premier.

– Moi ?

– Vous ! vous ! appuya-t-elle en me regardant dans les yeux, comme pour me provoquer.

– Mais qu’ai-je à faire là-dedans, moi ? répondis-je. Je ne pourrais me rebeller que d’une seule manière : en m’en allant.

– Eh bien ! conclut malicieusement mademoiselle Caporale, peut-être est-ce justement ce que ne veut pas Adrienne.

– Que je m’en aille ?

Elle fit tournoyer en l’air son mouchoir en lambeaux, puis se l’enroula autour d’un doigt, en soupirant :

– Qui sait ?

Je haussai les épaules.

– À table ! à table ! dis-je.

Et je la laissai là sur la terrasse.

Pour commencer, dès ce soir-là en passant par le corridor, je m’arrêtai devant la malle, sur laquelle Scipion Papiano était revenu s’accroupir.

– Pardon ! lui dis-je, ne pourriez-vous trouver un autre endroit où vous seriez assis plus à votre aise ? Ici vous m’embarrassez.

Il me regarda avec des yeux languissants, sans perdre contenance.

– Avez-vous compris ? insistai-je en le secouant par un bras. Mais j’aurais aussi bien pu parler au mur. La porte s’ouvrit alors au fond du corridor, et Adrienne parut.

– Je vous en prie, mademoiselle, lui dis-je, voyez un peu à faire entendre à ce malheureux qu’il pourrait aller s’asseoir ailleurs.

– Il est malade, dit Adrienne, cherchant à l’excuser.

– C’est parce qu’il est malade ! repartis-je. Ici, il n’est pas bien : il n’a pas d’air… et puis, assis sur une malle… Voulez-vous que je le dise à son frère ?

– Non ! non ! se hâta-t-elle de me répondre. Je le lui dirai, soyez-en sûr.

– Vous comprenez ! ajoutai-je. Je ne suis pas encore roi pour avoir une sentinelle à ma porte.

Je perdis à partir de ce soir-là tout empire sur moi-même ; je commençais à faire violence ouvertement à la timidité d’Adrienne ; je fermai les yeux et m’abandonnai, sans plus réfléchir, à mon sentiment.

Pauvre chère petite maman ! Elle se montra tout d’abord comme partagée entre la peur et l’espérance. Elle n’osait pas se fier à celle-ci, devinant que j’étais poussé par le dépit ; mais elle sentait d’autre part, que la peur en elle était causée par l’espérance jusqu’alors secrète et comme inconsciente de ne pas me perdre ; c’est pourquoi, maintenant que je donnais à cette espérance de nouveaux aliments par mes nouvelles manières résolues, elle ne savait pas non plus céder tout à fait à la peur.

Cette perplexité délicate, cette réserve honnête me firent m’engager de plus en plus dans l’espèce de défi sous-entendu que j’avais lancé à Papiano.

Je m’attendais à ce que celui-ci me tînt tête dès le premier jour, en omettant les compliments et cérémonies habituels. Pas du tout. Il releva son frère de son poste d’observation sur la malle, comme je le voulais, et en arriva jusqu’à plaisanter sur l’air gêné et égaré d’Adrienne en ma présence.

– Ne faites pas attention, monsieur Meis ! Elle est confuse comme une religieuse, ma petite belle-sœur !

Cette bonne grâce inattendue, tant de désinvolture me donnèrent à penser. Où voulait-il en venir ?

Un soir, je le vis arriver chez moi avec un homme qui entra en frappant avec force de son bâton sur le parquet, comme si, ayant les pieds dans une paire de chaussures de drap qui ne faisaient pas de bruit, il eût voulu entendre ainsi, à coups de bâton, qu’il marchait.

– Où c’est-y qu’il est, mon cher parent ? se mit-il à crier avec un fort accent turinois, sans enlever de sa tête son petit chapeau à bords relevés, enfoncé presque sur ses yeux à demi clos, troublés par le vin, et sans ôter de sa bouche une petite pipe avec laquelle il semblait faire cuire un nez plus rouge que celui de mademoiselle Caporale. Où c’est-y qu’il est, mon cher parent ?

– Le voici, dit Papiano en me montrant. Puis, se tournant vers moi :

– Monsieur Adrien, une bonne surprise ! monsieur François Meis, de Turin, votre parent.

– Mon parent ? m’écriai-je abasourdi.

Celui-ci ferma les yeux, leva comme un ours une patte qu’il tint quelque temps suspendue, attendant que je la lui serrasse.

Je le laissai là, dans cette attitude, pour le contempler un moment. Puis :

– Qu’est-ce que cela veut dire ? demandai-je.

– Non, pardon, pourquoi ? fit Térence Papiano. Monsieur François Meis m’a assuré que vous êtes son…

– Cousin, appuya celui-ci, sans ouvrir les yeux. Tous les Meis sont parents.

– Mais, je n’ai pas l’honneur de vous connaître, protestai-je.

– Oh ! mais n’en voilà-t-y une belle ! s’écrie l’homme. Et c’est pour ça que j’sons venu te trouver.

– Meis ? de Turin ? demandai-je, feignant de chercher dans ma mémoire : mais je ne suis pas de Turin !

– Comment ! Excusez ! interrompit Papiano. Ne m’avez-vous pas dit que jusqu’à dix ans vous étiez resté à Turin ?

– Mais oui ! reprit l’homme, vexé qu’on mît en doute une chose pour lui tout à fait sûre. Cousin, cousin ! Ce mossieu-là… commen qu’y s’appelle ?

– Térence Papiano, pour vous servir !

– Terenciano : y m’a dit que ton père il est allé en Amérique ; quoi que ça veut dire, ça ? ça veut dire que t’es l’fieu de défunt Antoine, qu’est allé en Amérique. Et j’sommes cousins.

– Mais puisque mon père s’appelait Paul…

– Antoine !

– Paul, Paul, Paul. Voudriez-vous le savoir mieux que moi ?

Il haussa les épaules et fit grimacer sa bouche :

– J’croyions que c’fut Antoine, dit-il en frottant son menton hérissé d’une barbe de quatre jours au moins, presque toute grise. – J’voulons point t’contredire : va pour Paul. Je n’me rappelons point ben, car je ne l’ons point connu.

Pauvre homme ! Il était en état de savoir mieux que moi comment s’appelait son oncle, parti pour l’Amérique ; pourtant il céda parce qu’à toute force il voulait être mon parent. Il me dit que son père, qui s’appelait François comme lui, et était frère d’Antoine… c’est-à-dire de Paul mon père, avait quitté Turin quand lui était encore tout gosse, à sept ans, et que – pauvre employé – il avait vécu toujours éloigné de la famille, un peu ici, un peu là. Il ne savait pas grand-chose donc, de ses parents, soit paternels, soit maternels : toutefois, il était certain, très certain d’être mon cousin.

Mais le grand-père, au moins, le grand-père, l’avait-il connu ?

Je le lui demandai. Eh bien ! oui, il l’avait connu ; il ne se rappelait pas si c’était à Pavie ou à Plaisance.

Ah ! oui, connu ? Et comment il était ? Il était… Il ne s’en souvenait pas.

– Ya ben d’ça trente années…

Il ne me paraissait nullement de mauvaise foi ; il avait plutôt l’air d’un pauvre diable qui avait noyé son âme dans le vin pour ne pas sentir trop le poids de l’ennui et de la misère. Il penchait la tête, les yeux fermés, approuvant tout ce que je disais, pour m’amuser de lui ; je suis sûr que, si je lui avais dit que tout enfant nous avions grandi ensemble et que parfois je lui avais tiré les cheveux, il aurait approuvé de la même manière. Il n’y a qu’une chose que je ne devais pas mettre en doute, c’est que nous fussions cousins ; là-dessus il ne pouvait transiger, c’était désormais établi. Donc, inutile d’insister.

Mais tout à coup, en regardant Papiano et en voyant sa mine rayonnante, l’envie me passa de plaisanter. Je congédiai ce pauvre homme, à moitié ivre, en le saluant : Cher parent ! Et je demandai à Papiano, mes yeux fixés dans les siens, pour bien lui faire entendre que je n’étais pas homme à me laisser duper par lui :

– Maintenant dites-moi où vous êtes allé déterrer ce beau type ?

– Excusez-moi, monsieur Adrien ! commença cet intrigant. Je m’aperçois que je n’ai pas été heureux…

– Mais vous êtes très heureux toujours ! m’écriai-je.

– Non, je veux dire : de ne pas vous avoir fait plaisir. Mais croyez bien que ç’a été un pur hasard. Voici : j’ai dû aller, ce matin, au bureau des impositions pour le compte du marquis, mon patron. Tandis que j’étais là, j’ai entendu appeler fort : Monsieur Meis ! monsieur Meis ! Je me retourne aussitôt, croyant vous trouver là aussi, pour quelque affaire, qui sait ? et, si vous aviez besoin de moi, toujours prêt à vous servir. Mais quoi ? On appelait ce beau type, comme vous avez dit justement, et alors, comme cela… par curiosité, je m’approchai, et je lui demandai s’il s’appelait vraiment Meis et de quel pays il était, ayant l’honneur et le plaisir d’avoir comme hôte un monsieur Meis… Voilà comme cela s’est passé ! Lui m’a assuré que vous deviez être son parent, et a voulu venir faire votre connaissance.

– Au bureau des impositions ?

– Oui, monsieur, il est employé là : sous-agent.

Devais-je le croire ? Je voulus m’en assurer. Et c’était vrai ; mais il était vrai aussi que Papiano, soupçonneux, tandis que je voulais le prendre de front, là, pour contrarier dans le présent ses secrètes machinations, m’échappait pour rechercher au contraire dans mon passé et m’attaquer ainsi comme par-derrière. Le connaissant bien, je n’avais que trop de raisons de craindre qu’avec son flair de chien de chasse, il ne fût pas longtemps à aller le nez au vent ; gare s’il réussissait à renifler la moindre trace : il la suivrait certainement jusqu’au moulin de l’Épinette.

Figurez-vous donc mon épouvante, quand, à peu de jours de là, pendant que j’étais dans ma chambre en train de lire, il m’arriva du corridor, comme de l’autre monde, une voix, une voix encore vivante dans ma mémoire :

– Yo rendé gracés à Dio, che yo me la souis levada de sobre !

L’Espagnol ! mon petit Espagnol barbu et trapu de Monte-Carlo ! Celui qui voulait jouer avec moi et avec qui je m’étais querellé à Nice ?… Ah ! Dieu bon ! Voici la trace ; Papiano avait réussi à la découvrir !

Je bondis sur mes pieds, m’appuyai à la table pour ne pas tomber, dans mon égarement imprévu et anxieux : stupéfait, presque atterré, je tendis l’oreille, avec l’idée de fuir dès que ces deux hommes – Papiano et l’Espagnol (c’était lui, sans aucun doute : je l’avais vu dans sa voix) – auraient traversé le corridor. Fuir ? Et si Papiano, en entrant, avait demandé à la bonne si j’étais à la maison ? Qu’aurait-il pensé de ma fuite ? Mais, d’autre part, s’il savait déjà que je n’étais pas Adrien Meis ? Doucement ! Quels renseignements pouvait avoir sur moi cet Espagnol ? Il m’avait vu à Monte-Carlo. Lui avais-je dit, alors, que je m’appelais Mathias Pascal ? Peut-être ? Je ne me souvenais pas…

Je me trouvai, sans le savoir, devant la glace, comme si quelqu’un m’y avait conduit par la main. Je me regardai. Ah ! ce maudit œil ! Il allait peut-être me faire reconnaître. Mais comment diable Papiano avait-il pu arriver là, jusqu’à mon aventure de Monte-Carlo ? C’est cela surtout qui me stupéfiait. Que faire cependant ? Rien. Attendre ici que ce qui devait arriver arrivât.

Il n’arriva rien. Et pourtant la peur ne me passa pas, pas même le soir de ce même jour, quand Papiano, m’expliquant le mystère pour moi insoluble et terrible de cette visite, me fit voir qu’il n’était nullement sur la trace de mon passé, et que le hasard seul, qui, depuis quelque temps, me prodiguait ses faveurs, avait voulu me jouer un tour de sa façon, en me remettant en face de cet Espagnol qui, peut-être, ne se souvenait plus de moi.

Selon les renseignements que Papiano me donna sur lui, en allant à Monte-Carlo, je ne pouvais pas ne pas l’y rencontrer, car c’était un joueur de profession. L’étrange était que je le rencontrasse maintenant à Rome. Certes, si je n’avais rien eu à craindre, ce hasard ne m’aurait pas paru étrange : combien de fois, en effet, ne nous arrive-t-il pas de nous heurter à l’improviste contre quelqu’un que nous avons connu ailleurs fortuitement ? Du reste, il avait ou croyait avoir de bonnes raisons pour venir à Rome et chez Papiano. Le tort venait de moi, ou du hasard qui m’avait fait raser ma barbe et changer mon nom.

Environ vingt ans auparavant, le marquis Giglio d’Auletta, dont Papiano était le secrétaire, avait marié sa fille unique à don Antoine Pantogada, attaché d’ambassade auprès du Saint-Siège. Peu de temps après le mariage, Pantogada, découvert une nuit par la police dans un tripot en même temps que d’autres personnages de l’aristocratie romaine, avait été rappelé à Madrid. Là il avait fait le reste, et peut-être quelque chose de pis, après quoi il avait été contraint de démissionner. Depuis ce moment, le marquis d’Auletta n’avait plus eu de paix, forcé continuellement d’envoyer de l’argent pour payer les dettes de jeu de son incorrigible gendre. Il y avait quatre ans que la femme de Pantogada était morte, laissant une fille d’environ seize ans, que le marquis avait voulu prendre avec lui, ne sachant que trop dans quelles mains, autrement, elle serait restée.

Pantogada n’aurait pas voulu la lui laisser échapper ; mais ensuite, obéissant à un pressant besoin d’argent, il avait cédé. À présent il menaçait sans cesse son beau-père de reprendre sa fille, et ce jour-là justement il était venu à Rome dans cette intention, c’est-à-dire pour escroquer encore de l’argent au pauvre marquis, sachant bien que celui-ci ne lui abandonnerait jamais, au grand jamais, sa chère petite-fille Pépita.

Papiano avait des paroles de feu pour flétrir cet indigne marchandage de Pantogada. Et cette colère généreuse était vraiment sincère.

Pendant qu’il parlait, je ne pouvais m’empêcher d’admirer l’agencement privilégié de sa conscience qui, tout en pouvant s’indigner ainsi, réellement, des infamies d’autrui, lui permettait ensuite d’en faire de semblables, ou à peu près, bien tranquillement, au préjudice de ce brave homme de Paleari, son beau-père.

Cependant le marquis Giglio, cette fois, voulait tenir ferme. Il s’ensuivait que Pantogada allait rester à Rome quelque temps et viendrait trouver chez lui Térence Papiano, avec lequel il devait s’entendre à merveille. Une rencontre entre moi et cet Espagnol allait donc être inévitable d’un jour à l’autre. Que faire ?

À défaut d’autres, je pris pour conseiller de nouveau le miroir. Sur la lame de verre, l’image de feu Mathias Pascal, venant flotter à la surface comme du fond du canal, avec cet œil qui était tout ce qui m’était resté de lui, me parla ainsi :

« Dans quel vilain guêpier t’es-tu fourré, Adrien Meis ? Tu as peur de Papiano, avoue-le ? et tu voudrais en faire retomber la faute sur moi, encore moi, seulement parce qu’à Nice je me disputai avec l’Espagnol. Et pourtant j’avais raison, tu le sais. Il te semble qu’il puisse être suffisant pour le moment de t’effacer du visage la dernière trace de moi ? Eh bien ! suis le conseil de mademoiselle Caporale et appelle le docteur Ambrosini, pour qu’il te remette l’œil en place. Ensuite… tu verras ! »



 

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