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IX: Un po' di nebbia
Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non m'ero accorto tra gli svaghi de' viaggi e nell'ebbrezza della nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già un po' stanco, come ho detto, del vagabondaggio e deliberato a impormi un freno. E mi accorgevo che... sì, c'era un po' di nebbia, c'era; e faceva freddo; m'accorgevo che per quanto il mio animo si opponesse a prender qualità dal colore del tempo, pur ne soffriva. « Ma sta' a vedere, » mi rampognavo, « che non debba più far nuvolo perché tu possa ora godere serenamente della tua libertà! » M'ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano Meis aveva avuto in quell'anno la sua giovinezza spensierata; ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé, si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe stato facile, libero com'era e senz'obblighi di sorta! Così mi pareva; e mi misi a pensare in quale città mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché come un uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio dovevo compormi una regolare esistenza. Ma dove? in una grande città o in una piccola? Non sapevo risolvermi. Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall'una all'altra, indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria; e dicevo: « Ecco, io vi sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure, in quanti luoghi ho detto: - Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! -. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l'animo di chi viaggia. » Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno. Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch'esso evoca e aggruppa, per cosi dire, attorno a sé. Certo un oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell'oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d'immagini care. Né noi lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell'oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi, l'accordo, l'armonia che stabiliamo tra esso e noi, l'anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi. Or come poteva avvenire per me tutto questo in una camera d'albergo ? Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? I miei denari erano pochini... Ma una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un luogo, proprietario d'una casa, eh, allora : registri e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto all'anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia... Insomma, impicci, imbrogli!... No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in una camera mobiliata. Dovevo affliggermi per così poco? L'inverno, L'inverno m'ispirava queste riflessioni malinconiche, La prossima festa di Natale che fa desiderare il tepore d'un cantuccio caro, il raccoglimento, l'intimità della casa. Non avevo certo da rimpiangere quella di casa mia. L'altra, più antica, della casa paterna, l'unica ch'io potessi ricordare con rimpianto, era già distrutta da un pezzo, e non da quel mio nuovo stato. Sicché dunque dovevo contentarmi, pensando che davvero non sarei stato più lieto, se avessi passato a Miragno, tra mia moglie e mia suocera - (rabbrividivo!) - quella festa di Natale. Per ridere, per distrarmi, m'immaginavo intanto, con un buon panettone sotto il braccio, innanzi alla porta di casa mia. « - Permesso? Stanno ancora qua le signore Romilda Pescatore, vedova Pascal, e Marianna Dondi, vedova Pescatore? » « - Sissignore. Ma chi è lei? » « - Io sarei il defunto marito della signora Pascal, quel povero galantuomo morto l'altr'anno, annegato. Ecco, vengo lesto lesto dall'altro mondo per passare le feste in famiglia, con licenza dei superiori. Me ne riparto subito! » Rivedendomi cosi all'improvviso, sarebbe morta dallo spavento la vedova Pescatore? Che! Lei? Figuriamoci! Avrebbe fatto rimorire me, dopo due giorni. La mia fortuna - dovevo convincermene - la mia fortuna consisteva appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera, dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora, ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli com'ero io! « Si, ma questi tali, » m'induceva a riflettere il cattivo tempo, quella nebbia maledetta, « o son forestieri e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani, e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza. Forestiere della vita, Adriano Meis. » Mi scrollavo, seccato, esclamando: - E va bene! Meno impicci. Non ho amici? Potrò averne... Già nella trattoria che frequentavo in quei giorni, un signore, mio vicino di tavola, s'era mostrato inchinevole a far amicizia con me. Poteva avere da quarant'anni : calvo sì e no, bruno, con occhiali d'oro, che non gli si reggevano bene sul naso, forse per il peso de la catenella pur d'oro. Ah, per questo un ometto tanto carino! Figurarsi che, quando si levava da sedere e si poneva il cappello in capo, pareva subito un altro: un ragazzino pareva. Il difetto era nelle gambe, così piccole, che non gli arrivavano neanche a terra, se stava seduto: egli non si alzava propriamente da sedere, ma scendeva piuttosto dalla sedia. Cercava di rimediare a questo difetto, portando i tacchi alti. Che c'è di male? Sì, facevan troppo rumore quei tacchi; ma gli rendevano intanto così graziosamente imperiosi i passettini da pernice. Era molto bravo poi, ingegnoso - forse un pochino bisbetico e volubile - ma con vedute sue, originali; ed era anche cavaliere. Mi aveva dato il suo biglietto da visita: - Cavalier Tito Lenzi. A proposito di questo biglietto da visita, per poco non mi feci anche un motivo d'infelicità della cattiva figura che mi pareva d'aver fatta, non potendo ricambiarglielo. Non avevo ancora biglietti da visita: provavo un certo ritegno a farmeli stampare col mio nuovo nome. Miserie! Non si può forse fare a meno de' biglietti da visita? Si dà a voce il proprio nome, e via. Così feci; ma, perdir la verità, il mio vero nome... basta! Che bei discorsi sapeva fare il cavalier Tito Lenzi! Anche il latino sapeva; citava come niente Cicerone. - La coscienza? Ma la coscienza non serve, caro signore! La coscienza, come guida, non può bastare. Basterebbe forse, ma se essa fosse castello e non piazza, per così dire; se noi cioè potessimo riuscire a concepirci isolatamente, ed essa non fosse per sua natura aperta agli altri. Nella coscienza, secondo me, insomma, esiste una relazione essenziale... sicuro, essenziale, tra me che penso e gli altri esseri che io penso. E dunque non è un assoluto che basti a se stesso, mi spiego? Quando i sentimenti, le inclinazioni, i gusti di questi altri che io penso o che lei pensa non si riflettono in me o in lei, noi non possiamo essere né paghi, né tranquilli, né lieti; tanto vero che tutti lottiamo perché i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano nella coscienza degli altri. E se questo non avviene, perché... diciamo cosi, l'aria del momento non si presta a trasportare e a far fiorire, caro signore, i germi... i germi della sua idea nella mente altrui, lei non può dire che la sua coscienza le basta. A che le basta? Le basta per viver solo? per isterilire nell'ombra? Eh via! Eh via! Senta; io odio la retorica, vecchia bugiarda fanfarona, civetta con gli occhiali. La retorica, sicuro, ha foggiato questa bella frase con tanto di petto in fuori: « Ho la mia coscienza e mi basta ». Già! Cicerone prima aveva detto: Mea mihi conscientia pluris est quam hominum sermo. Cicerone però, diciamo la verità, eloquenza, eloquenza, ma... Dio ne scampi e liberi, caro signore! Nojoso più d'un principiante di violino! Me lo sarei baciato. Se non che, questo mio caro ometto non volle perseverare negli arguti e concettosi discorsi, di cui ho voluto dare un saggio; cominciò a entrare in confidenza; e allora io, che già credevo facile e bene avviata la nostra amicizia, provai subito un certo impaccio, sentii dentro me quasi una forza che mi obbligava a scostarmi, a ritrarmi. Finché parlò lui e la conversazione s'aggirò su argomenti vaghi, tutto andò bene; ma ora il cavalier Tito Lenzi voleva che parlassi io. - Lei non è di Milano, è vero? - No... - Di passaggio? - Sì... - Bella città Milano, eh? - Bella, già... Parevo un pappagallo ammaestrato. E più le sue domande mi stringevano, e io con le mie risposte m'allontanavo. E ben presto fui in America. Ma come l'ometto mio seppe ch'ero nato in Argentina, balzò dalla sedia e venne a stringermi calorosamente la mano: - Ah, mi felicito con lei, caro signore! La invidio! Ah, l'America... Ci sono stato. C'era stato? Scappa! - In questo caso, - m'affrettai a dirgli, - debbo io piuttosto felicitarmi con lei che c'è stato, perché io posso quasi quasi dire di non esserci stato, tuttoché nativo di là; ma ne venni via di pochi mesi; sicché dunque i miei piedi non han proprio toccato il suolo americano, ecco! - Che peccato! - esclamò dolente il cavalier Tito Lenzi. - Ma lei ci avrà parenti, laggiù, m'immagino! - No, nessuno... - Ah, dunque, è venuto in Italia con tutta la famiglia, e vi si è stabilito? Dove ha preso stanza? Mi strinsi ne le spalle: - Mah! - sospirai, tra le spine, - un po' qua, un po' là... Non ho famiglia e... e giro. - Che piacere! Beato lei! Gira... Non ha proprio nessuno? - Nessuno... - Che piacere! beato lei! la invidio! - Lei dunque ha famiglia? - volli domandargli, a mia volta, per deviare da me il discorso. - E no, purtroppo! - sospirò egli allora, accigliandosi. - Son solo e sono stato sempre solo! - E dunque, come me!... - Ma io mi annojo, caro signore! m'annojo! - scattò l'ometto. - Per me, la solitudine... eh si, infine, mi sono stancato. Ho tanti amici; ma, creda pure, non è una bella cosa, a una certa età, andare a casa e non trovar nessuno. Mah! C'è chi comprende e chi non comprende, caro signore. Sta molto peggio chi comprende, perché alla fine si ritrova senza energia e senza volontà. Chi comprende, infatti, dice: « Io non devo far questo, non devo far quest'altro, per non commettere questa o quella bestialità ». Benissimo! Ma a un certo punto s'accorge che la vita è tutta una bestialità, e allora dica un po' lei che cosa significa il non averne commessa nessuna: significa per lo meno non aver vissuto, caro signore. - Ma lei, - mi provai a confortarlo, - lei è ancora in tempo, fortunatamente... - Di commettere bestialità? Ma ne ho già commesse tante, creda pure! - rispose con un gesto e un sorriso fatuo. - Ho viaggiato, ho girato come lei e... avventure, avventure... anche molto curiose e piccanti... si, via, me ne son capitate. Guardi, per esempio, a Vienna, una sera... Cascai dalle nuvole. Come! Avventure amorose, lui? Tre, quattro, cinque, in Austria, in Francia, in Italia... anche in Russia? E che avventure! Una più ardita dell'altra... Ecco qua, per dare un altro saggio, un brano di dialogo tra lui e una donna maritata: LUI: - Eh, a pensarci, lo so, cara signora... Tradire il marito, Dio mio! La fedeltà, l'onestà, la dignità... tre grosse, sante parole, con tanto d'accento su l'a. E poi: l'onore! altra parola enorme... Ma, in pratica, credete, è un'altra cosa, cara signora: cosa di pochissimo momento! Domandate alle vostre amiche che ci si sono avventurate. LA DONNA MARITATA: - Sì; e tutte quante han provato poi un grande disinganno! LUI: - Ma sfido ma si capisce! Perché impedite, trattenute da quelle parolacce, hanno messo un anno, sei mesi, troppo tempo a risolversi. E il disinganno diviene appunto dalla sproporzione tra l'entità del fatto e il troppo pensiero che se ne son date. Bisogna risolversi subito, cara signora! Lo penso, lo faccio. E' cosi semplice! Bastava guardarlo, bastava considerare un poco quella sua minuscola ridicola personcina, per accorgersi ch'egli mentiva, senza bisogno d'altre prove. Allo stupore seguì in me un profondo avvilimento di vergogna per lui, che non si rendeva conto del miserabile effetto che dovevano naturalmente produrre quelle sue panzane, e anche per me che vedevo mentire con tanta disinvoltura e tanto gusto lui, lui che non ne avrebbe avuto alcun bisogno; mentre io, che non potevo farne a meno, io ci stentavo e ci soffrivo fino a sentirmi, ogni volta, torcer l'anima dentro. Avvilimento e stizza. Mi veniva d'afferrargli un braccio e di gridargli: « Ma scusi, cavaliere, perché? perché? » Se però erano ragionevoli e naturali in me l'avvilimento e la stizza, mi accorsi, riflettendoci bene, che sarebbe stata per lo meno sciocca quella domanda. Infatti, se il caro ometto imbizzarriva cosi a farmi credere a quelle sue avventure, la ragione era appunto nel non aver egli alcun bisogno di mentire; mentre io... io vi ero obbligato dalla necessità. Ciò che per lui, insomma, poteva essere uno spasso e quasi l'esercizio d'un diritto, era per me, all'incontro, obbligo increscioso, condanna. E che seguiva da questa riflessione? Ahimè, che io, condannato inevitabilmente a mentire dalla mia condizione, non avrei potuto avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né casa, né amici... Amicizia vuol dire confidenza; e come avrei potuto io confidare a qualcuno il segreto di quella mia vita senza nome e senza passato, sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal? Io potevo aver solamente relazioni superficiali, permettermi solo co' miei simili un breve scambio di parole aliene. Ebbene, erano gl'inconvenienti della mia fortuna. Pazienza! Mi sarei scoraggiato per questo? « Vivrò con me e di me, come ho vissuto finora! » Sì; ma ecco: per dir la verità, temevo che della mia compagnia non mi sarei tenuto né contento né pago. E poi, toccandomi la faccia e scoprendomela sbarbata, passandomi una mano su quei capelli lunghi o rassettandomi gli occhiali sul naso, provavo una strana impressione: mi pareva quasi di non esser più io, di non toccare me stesso. Siamo giusti, io mi ero conciato a quel modo per gli altri, non per me. Dovevo ora star con me, così mascherato? E se tutto ciò che avevo finto e immaginato di Adriano Meis non doveva servire per gli altri, per chi doveva servire? per me? Ma io, se mai, potevo crederci solo a patto che ci credessero gli altri. Ora, se questo Adriano Meis non aveva il coraggio di dir bugie, di cacciarsi in mezzo alla vita, e si appartava e rientrava in albergo, stanco di vedersi solo, in quelle tristi giornate d'inverno, per le vie di Milano, e si chiudeva nella compagnia del morto Mattia Pascal, prevedevo che i fatti miei, eh, avrebbero cominciato a camminar male; che insomma non mi s'apparecchiava un divertimento, e che la mia bella fortuna, allora... Ma la verità forse era questa: che nella mia libertà sconfinata, mi riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo. Sul punto di prendere una risoluzione, mi sentivo come trattenuto, mi pareva di vedere tanti impedimenti e ombre e ostacoli. Ed ecco, mi cacciavo, di nuovo, fuori, per le strade, osservavo tutto, mi fermavo a ogni nonnulla, riflettevo a lungo su le minime cose; stanco, entravo in un caffè, leggevo qualche giornale, guardavo la gente che entrava e usciva; alla fine, uscivo anch'io. Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolìo di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m'intronavano. « Oh perché gli uomini, » domandavo a me stesso, smaniosamente, « si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l'uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d'arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole? » In un tram elettrico, il giorno avanti, m'ero imbattuto in un pover'uomo, di quelli che non possono fare a meno di comunicare a gli altri tutto ciò che passa loro per la mente. - Che bella invenzione! - mi aveva detto. - Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezza Milano. Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover'uomo, e non pensava che il suo stipendiuccio se n'andava tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa, col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc., ecc. Eppure la scienza, pensavo, ha l'illusione di render più facile e più comoda l'esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: « E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica? ». Rientravo in albergo. Là, in un corridojo, sospesa nel vano d'una finestra, c'era una gabbia con un canarino. Non potendo con gli altri e non sapendo che fare, mi mettevo a conversar con lui, col canarino: gli rifacevo il verso con le labbra, ed esso veramente credeva che qualcuno gli parlasse e ascoltava e forse coglieva in quel mio pispissìo care notizie di nidi, di foglie, di libertà... Si agitava nella gabbia, si voltava, saltava, guardava di traverso, scotendo la testina, poi mi rispondeva, chiedeva, ascoltava ancora. Povero uccellino! lui sì m'inteneriva, mentre io non sapevo che cosa gli avessi detto... Ebbene, a pensarci non avviene anche a noi uomini qualcosa di simile? Non crediamo anche noi che la natura ci parli? e non ci sembra di cogliere un senso nelle sue voci misteriose, una risposta, secondo i nostri desiderii, alle affannose domande che le rivolgiamo? E intanto la natura, nella sua infinita grandezza, non ha forse il più lontano sentore di noi e della nostra vana illusione. Ma vedete un po' a quali conclusioni uno scherzo suggerito dall'ozio può condurre un uomo condannato a star solo con se stesso! Mi veniva quasi di prendermi a schiaffi. Ero io dunque sul punto di diventare sul serio un filosofo? No, no, via, non era logica la mia condotta. Così, non avrei potuto più oltre durarla. Bisognava ch'io vincessi ogni ritegno, prendessi a ogni costo una risoluzione. Io, insomma, dovevo vivere, vivere, vivere.

 

IX

UN PEU DE BRUME

Du premier hiver, je ne m’en étais quasi point aperçu, parmi les distractions des voyages et dans l’ivresse de ma nouvelle liberté. Le second hiver me surprenait à présent déjà un peu las, comme j’ai dit, de mon vagabondage et décidé à m’imposer un frein. Et je m’apercevais qu’il y avait de la brume et qu’il faisait froid.

« Tu voudrais peut-être, me gourmandais-je, que le ciel fût toujours serein pour que tu pusses jouir sans nuages de ta liberté ? »

Je m’étais assez amusé, en courant de-ci de-là : Adrien Meis avait eu, cette année-là, sa jeunesse étourdie ; à présent, il fallait qu’il devînt un homme, se recueillît en lui-même, se formât un genre de vie calme et modeste.

Je me mis à chercher dans quelle ville il me conviendrait de fixer ma demeure, car je ne pouvais pas rester plus longtemps comme un oiseau sans nid, si vraiment je voulais m’arranger une existence régulière.

Mais une maison à moi, toute à moi, pourrais-je jamais plus l’avoir ? Il fallait considérer tant de choses. Tout à fait libre, je ne pouvais l’être que la valise à la main : aujourd’hui ici, demain là. Fixé dans un endroit, propriétaire d’une maison ? Oh ! alors : registres et taxes tout de suite ! Et ne m’inscrirait-on pas à l’état civil ? Mais assurément ! Et comment ? Sous un faux nom ? Et alors, qui sait ? Peut-être des enquêtes secrètes à mon sujet de la part de la police… En somme, tracas, embarras !… Non ! tant pis ! Je prévoyais ne pouvoir plus avoir une maison à moi, des objets à moi. Mais je prendrais pension dans quelque famille, avec une chambre meublée. Allais-je m’affliger pour si peu ?

L’hiver m’inspirait ces réflexions mélancoliques. La fête de Noël, toute proche, me fit désirer la tiédeur d’un petit coin, le recueillement, l’intimité de la maison.

Pour rire, pour me distraire, je m’imaginais avec un bon gros pain sous le bras, devant la porte de ma maison.

« – Pardon ! Est-ce encore ici que demeurent mesdames Romilda Pescatore, veuve Pascal, et Marianne Dondi, veuve Pescatore ?

– Oui, monsieur ! Mais qui êtes-vous ?

– Je suis le défunt mari de madame Pascal, ce pauvre brave homme noyé l’année dernière. Voici : je viens de l’autre monde pour passer les fêtes en famille, avec permission de mes supérieurs. Je m’en retourne aussitôt. »

En me revoyant ainsi à l’improviste, la veuve Pescatore n’allait-elle pas mourir de frayeur ? Quoi ? Elle ? Pensez-vous ! C’est moi qu’elle aurait fait remourir, au bout de deux jours.

Ainsi, j’étais libre de tout. Et cela ne me suffisait pas ? Je souffrais d’être seul. Mais combien étaient seuls comme moi !

Oui, mais ceux-là, pensais-je, ceux-là ou sont étrangers, et ont ailleurs leurs maisons où ils pourront un jour ou l’autre, ou si, comme toi, ils n’ont pas de maisons, ils pourront en avoir une demain, et en attendant ils auront celle d’un ami hospitalier. Toi, au contraire, pour dire le vrai, tu seras toujours et partout un étranger : voilà la différence. Étranger de la vie, Adrien Meis !

Je haussais les épaules, ennuyé, m’écriant :

– Eh ! tant mieux ! j’aurai moins d’embarras. Je n’ai pas d’amis ? Je pourrai en avoir…

Déjà, au restaurant que je fréquentais ces jours-là, un monsieur, mon voisin de table, s’était montré enclin à lier amitié avec moi. Il pouvait avoir dans les quarante ans : un peu chauve, brun, avec des lunettes d’or qui n’étaient pas solides sur son nez, peut-être à cause du poids de la chaînette, également en or. Ah ! pour celui-là, un si charmant petit homme ! Figurez-vous que, quand il se levait de sa chaise et mettait son chapeau, il paraissait subitement un autre : il paraissait un petit garçon. C’était la faute de ses jambes, si petites qu’elles n’arrivaient même pas à terre quand il était assis ; en réalité, il ne se levait pas de sa chaise, mais plutôt en descendait. Il cherchait à remédier à ce défaut en portant les talons hauts. Quel mal y a-t-il ? Oui, ils faisaient trop de bruit, ces talons : mais ils rendaient si gracieusement impérieux ses petits pas de perdrix !

D’ailleurs, un excellent homme, ingénieux, – peut-être un peu capricieux et volage, – mais avec des vues à lui, originales, et il était de plus chevalier.

Il m’avait donné sa carte de visite : Chev. Titus Lenzi.

À propos, je faillis me chagriner de la triste figure qu’il me semblait avoir faite en me trouvant dans l’impossibilité de lui donner ma carte en échange. Je n’avais pas encore de carte de visite : j’éprouvais une certaine répugnance à m’en faire imprimer. Quelle misère ! Ne peut-on par hasard se passer de cartes de visite ? On donne son nom de vive voix, et voilà.

C’est ainsi que je fis !

Quelles belles conversations savait tenir le chevalier Titus Lenzi ! il savait même le latin : il citait Cicéron comme rien.

– La conscience ? Mais la conscience ne sert à rien, cher monsieur ! La conscience, comme guide, ne peut suffire. Elle suffirait peut-être si nous pouvions réussir à nous concevoir isolément, et qu’elle ne fût pas de sa nature ouverte aux autres. Dans la conscience, selon moi, en somme, existe une relation essentielle… certainement essentielle, entre moi qui pense et les autres êtres que je pense ; donc ce n’est pas un absolu qui se suffise à lui-même. Est-ce que je m’explique bien ? Quand les sentiments, les inclinations, les goûts de ces autres que je pense ou que vous pensez ne se réfléchissent pas en moi ou en vous, nous ne pouvons être ni satisfaits, ni tranquilles, ni joyeux ; c’est si vrai, que nous luttons tous pour que nos sentiments, nos pensées, nos inclinations se reflètent dans la conscience des autres. À quoi votre conscience vous suffit-elle ? Vous suffit-elle pour vivre seul ? pour vous stériliser dans l’ombre ? Allons donc ! Je hais la rhétorique, cette vieille menteuse fanfaronne, coquette en lunettes, qui a imaginé cette belle phrase prétentieuse : « J’ai ma conscience et cela me suffit ! »

Je l’aurais embrassé. Seulement, le cher petit homme ne voulut pas persévérer dans ses discours ingénieux et spirituels. Il commença à entrer dans les confidences, et alors, moi qui déjà croyais facile et bien engagée notre amitié, j’éprouvai aussitôt une certaine gêne qui m’obligeait à m’éloigner, à me dérober. Tant qu’il parla tout seul et que la conversation roula sur des sujets vagues, tout alla bien ; mais à présent le chevalier Titus Lenzi voulait que je parlasse à mon tour :

– Vous n’êtes pas de Milan, n’est-ce pas ?

– Non !…

– De passage ?

– Oui !…

– Belle ville, Milan ?

– Belle…

J’avais l’air d’un perroquet apprivoisé. Et plus ses demandes me serraient de près, plus je m’écartais avec mes réponses. Et bientôt je fus en Amérique. Mais dès que mon petit bonhomme sut que j’étais né en Argentine, il bondit de sa chaise et vint me presser chaleureusement la main :

– Toutes mes félicitations, cher monsieur ! Je vous envie ! Ah ! l’Amérique… J’y ai été.

Il y avait été ? Sauvons-nous !

– En ce cas, me hâtai-je de dire, c’est moi qui dois plutôt vous féliciter, vous qui y avez été, parce que, pour moi, je puis à peu près dire que je n’y ai pas été, tout natif de là que je sois ; je quittai le pays âgé de quelques mois, de sorte que mes pieds n’ont même pas touché le sol américain.

– Quel dommage ! s’écria tout chagrin le chevalier Titus Lenzi. Mais vous avez sans doute des parents là-bas ?

– Non ! personne…

– Ah ! c’est donc que vous êtes venu en Italie avec votre famille et qu’elle s’y est établie ? Où demeure-t-elle ?

Je haussai les épaules :

– Heu ! soupirai-je, sur des épines. Un peu ici, un peu là… Je n’ai pas de famille et… et je me promène !

– Heureux homme ! Je vous envie !

– Vous avez donc une famille ? demandai-je à mon tour pour le faire parler.

– Eh ! non, hélas ! non ! soupira-t-il alors en se renfrognant. Je suis seul et j’ai toujours été seul !

– C’est donc comme moi !…

– Mais je m’ennuie, mon cher monsieur ! Je m’ennuie ! éclata le petit homme. Pour moi, la solitude… eh ! oui ! enfin, je m’en suis fatigué. J’ai bien des amis ; mais croyez-moi, ce n’est pas drôle à un certain âge d’aller chez soi et de ne retrouver personne. Ah ! il y en a qui comprennent et d’autres qui ne comprennent pas, cher monsieur. C’est bien pis si on comprend, parce qu’à la fin, on se retrouve sans énergie et sans volonté. Celui qui comprend, en effet, dit : « Je ne dois pas faire ceci, je dois faire cela, pour ne pas commettre telle ou telle sottise. » Très bien ! Mais à un certain point il s’aperçoit que la vie tout entière est une sottise et alors, dites-moi un peu ce que signifie n’en avoir commis aucune : cela signifie pour le moins n’avoir pas vécu, cher monsieur.

– Mais vous, dis-je pour essayer de le réconforter, vous êtes encore à temps, grâce au ciel ?…

– De commettre des sottises ? Mais j’en ai déjà commis beaucoup, croyez-moi ! répondit-il avec un geste et un sourire fats. J’ai voyagé, je me suis promené comme vous, et… des aventures, des aventures… même de fort curieuses, de très piquantes… oui, parbleu ! il m’en est arrivé. Tenez ! par exemple, à Vienne, un soir…

Je tombai des nues. Comment ! des aventures amoureuses, lui ?

Il suffisait de le regarder, de considérer un peu cette constitution, ridiculement minuscule, pour s’apercevoir qu’il mentait.

À la stupeur succéda en moi un profond sentiment de honte pour lui, qui ne se rendait pas compte du misérable effet que devaient naturellement produire ses balivernes, et aussi pour moi, qui l’écoutais mentir avec tant de désinvolture. Lui n’avait aucun besoin du mensonge ! Tandis que moi qui ne pouvais m’en dispenser, j’y peinais et j’en souffrais jusqu’à me sentir, chaque fois, l’âme torturée.

Et que résultait-il de cette réflexion ? Hélas ! que condamné inévitablement à mentir par ma situation, je ne pourrais plus jamais avoir un ami, un véritable ami. Donc, ni maison, ni amis… Amitié veut dire confiance, et comment aurais-je pu confier à quelqu’un le secret de ma vie sans nom et sans passé, sortie comme un champignon du suicide de Mathias Pascal ? Je ne pouvais avoir que des relations superficielles, je ne pouvais me permettre avec mes semblables qu’un rapide échange de paroles indifférentes.

Eh bien ! c’étaient là les inconvénients de ma fortune. Patience ! Allais-je me décourager pour si peu !

Je vivrai avec moi et de moi, comme j’ai vécu jusqu’ici !

Oui, mais voici : pour dire la vérité, je craignais de ne pas savoir me contenter de ma compagnie. Et puis, en me touchant la figure et en la trouvant rasée, en passant ma main dans mes longs cheveux ou en rajustant mes lunettes sur mon nez, j’éprouvais une étrange impression : il me semblait n’être quasi plus moi, ne pas me toucher moi-même.

Soyons juste, je m’étais ainsi accommodé pour les autres, non pour moi. Devais-je maintenant me retrouver avec moi-même, ainsi déguisé ? Et si tout ce que j’avais feint et imaginé d’Adrien Meis ne devait pas servir pour les autres, pour qui devait-il servir ? Pour moi ? Mais, dans tous les cas, je ne pouvais y croire qu’à condition que les autres y crussent.

Or, si cet Adrien Meis n’avait pas le courage de dire des mensonges, de se jeter au milieu de la vie, s’il se tenait à l’écart et rentrait à l’hôtel ; fatigué de se voir seul, dans ces tristes journées d’hiver, par les rues de Milan, et s’enfermait en compagnie du défunt Mathias Pascal, je prévoyais que mes affaires, eh ! allaient commencer à aller mal, qu’en somme ce n’était pas un divertissement qui se préparait pour moi, et que ma belle fortune, alors…

Mais la vérité peut-être était celle-ci : que, dans ma liberté sans limites, il m’était difficile de commencer à vivre de quelque façon que ce fût. Sur le point de prendre une résolution quelconque, je me sentais comme retenu, il me semblait voir toutes sortes d’empêchements, d’ombres et d’obstacles.

Et, de nouveau, je me traînais dehors, par les rues ; j’observais tout, je m’arrêtais à tous les riens, je réfléchissais longuement sur les choses les plus minimes ; fatigué, j’entrais dans un café, je lisais quelque journal, je regardais les gens qui entraient ou sortaient ; à la fin, je sortais aussi. Mais la vie, à la considérer ainsi, en spectateur étranger, me paraissait maintenant sans profit et sans but ; je me sentais égaré parmi ce grouillement de gens.

Je rentrais à l’hôtel.

Là, dans un corridor, suspendue dans l’embrasure d’une fenêtre, était une cage avec un canari. Ne pouvant le faire avec les autres et ne sachant à quoi passer mon temps, je me mettais à causer avec ce canari : je lui répétais son refrain avec les lèvres, et lui croyait vraiment que quelqu’un lui parlait, et il écoutait, et peut-être recueillait-il dans mon gazouillement de chères nouvelles de nids, de feuilles, de liberté… Il s’agitait dans la cage, se tournait, sautait, regardait de biais, secouant sa petite tête, puis me répondait, interrogeait, écoutait encore. Pauvre petit oiseau ! Lui au moins m’entendait, tandis que je ne savais pas, moi, ce qu’il avait dit…

Eh bien ! à y réfléchir, ne nous arrive-t-il pas, à nous autres hommes, quelque chose de semblable ? Ne croyons-nous pas, nous aussi, que la nature nous parle ? Et ne nous semble-t-il pas recueillir un sens dans ses voix mystérieuses, une réponse selon nos désirs, aux demandes anxieuses que nous lui adressons ? Et cependant, la nature, dans sa grandeur infinie, n’a peut-être pas le plus lointain soupçon de nous et de notre vaine illusion.

Mais voyez un peu à quelles conclusions une plaisanterie suggérée par l’oisiveté peut conduire un homme condamné à vivre seul avec lui-même ! Il me venait presque des envies de me donner la bastonnade. Étais-je donc sur le point de devenir sérieusement un philosophe ?

Non ! non ! Voyons ! Ma conduite n’était pas logique. Comme cela je ne pourrais pas durer plus longtemps. Il me fallait vaincre toute répugnance, prendre à tout prix une résolution.

En somme, il me fallait vivre, vivre, vivre.



 

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