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III: La casa e la talpa
Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto mio padre. Non l'ho conosciuto. Avevo quattr'anni e mezzo quand'egli morì. Andato con un suo trabaccolo in Corsica, per certi negozii che vi faceva, non torno più, ucciso da una perniciosa, in tre giorni, a trentotto anni. Lasciò tuttavia nell'agiatezza la moglie e i due figli: Mattia (che sarei io, e fui) e Roberto, maggiore di me di due anni. Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a credere che la ricchezza di mio padre (la quale pure non gli dovrebbe più dar ombra, passata com'è da un pezzo in altre mani) avesse origini - diciamo così - misteriose. Vogliono che se la fosse procacciata giocando a carte, a Marsiglia, col capitano d'un vapore mercantile inglese, il quale, dopo aver perduto tutto il denaro che aveva seco, e non doveva esser poco, si era anche giocato un grosso carico di zolfo imbarcato nella lontana Sicilia per conto d'un negoziante di Liverpool (sanno anche questo! e il nome?), d'un negoziante di Liverpool, che aveva noleggiato il vapore; quindi, per disperazione, salpando, s'era annegato in alto mare. Così il vapore era approdato a Liverpool, alleggerito anche del peso del capitano. Fortuna che aveva per zavorra la malignità de' miei compaesani. Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio padre non ebbe mai pe' suoi commerci stabile sede: sempre in giro con quel suo trabaccolo, dove trovava meglio e più opportunamente comprava e subito rivendeva mercanzie d'ogni genere; e perché non fosse tentato a imprese troppo grandi e rischiose, investiva a mano a mano i guadagni in terre e case, qui, nel proprio paesello, dove presto forse contava di riposarsi negli agi faticosamente acquistati, contento e in pace tra la moglie e i figliuoli. Così acquistò prima la terra delle Due Riviere ricca di olivi e di gelsi, poi il podere della Stìa anch'esso riccamente beneficato e con una bella sorgiva d'acqua, che fu presa quindi per il molino; poi tutta la poggiata dello Sperone ch'era il miglior vigneto della nostra contrada, e infine San Rocchino, ove edificò una villa deliziosa. In paese, oltre alla casa in cui abitavamo, acquistò due altre case e tutto quell'isolato, ora ridotto e acconciato ad arsenale. La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia madre, inetta al governo dell'eredità, dovette affidarlo a uno che, per aver ricevuto tanti beneficii da mio padre fino a cangiar di stato, stimo dovesse sentir l'obbligo di almeno un po' di gratitudine, la quale, oltre lo zelo e l'onestà, non gli sarebbe costata sacrifizii d'alcuna sorta, poiché era lautamente remunerato, Santa donna, mia madre! D'indole schiva e placidissima, aveva così scarsa esperienza della vita e degli uomini! A sentirla parlare, pareva una bambina. Parlava con accento nasale e rideva anche col naso, giacché ogni volta, come si vergognasse di ridere, stringeva le labbra. Gracilissima di complessione, fu, dopo la morte di mio padre, sempre malferma in salute; ma non si lagnò mai de' suoi mali, né credo se ne infastidisse neppure con se stessa, accettandoli, rassegnata, come una conseguenza naturale della sua sciagura. Forse si aspettava di morire anch'essa, dal cordoglio, e doveva dunque ringraziare Iddio che la teneva in vita, pur così tapina e tribolata, per il bene dei figliuoli. Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena di palpiti e di sgomento: ci voleva sempre vicini, quasi temesse di perderci, e spesso mandava in giro le serve per la vasta casa, appena qualcuno di noi si fosse un po' allontanato. Come una cieca, s'era abbandonata alla guida del marito; rimastane senza, si sentì sperduta nel mondo. E non uscì più di casa, tranne le domeniche, di mattina per tempo, per andare a messa nella prossima chiesa, accompagnata dalle due vecchie serve, ch'ella trattava come parenti. Nella stessa casa, anzi, si restrinse a vivere in tre camere soltanto, abbandonando le molte altre alle scarse cure delle serve e alle nostre diavolerie. Spirava, in quelle stanze, da tutti i mobili d'antica foggia, dalle tende scolorite, quel tanfo speciale delle cose antiche, quasi il respiro d'un altro tempo; e ricordo che più d'una volta io mi guardai attorno con una strana costernazione che mi veniva dalla immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti da tanti anni lì senz'uso, senza vita. Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma era una sorella di mio padre, zitellona bisbetica, con un pajo d'occhi da furetto, bruna e fiera. Si chiamava Scolastica. Ma si tratteneva, ogni volta, pochissimo, perché tutt'a un tratto, discorrendo, s'infuriava, e scappava via senza salutare nessuno. Io, da ragazzo, ne avevo una gran paura. La guardavo con tanto d'occhi, specialmente quando la vedevo scattare in piedi su le furie e le sentivo gridare, rivolta a mia madre e pestando rabbiosamente un piede sul pavimento: - Senti il vuoto? La talpa! la talpa! Alludeva al Malagna, all'amministratore che ci scavava soppiatto la fossa sotto i piedi. Zia Scolastica (l'ho saputo dipoi) voleva a tutti i costi che mia madre riprendesse marito. Di solito, le cognate non hanno di queste idee né dànno di questi consigli. Ma ella aveva un sentimento aspro e dispettoso della giustizia; e più per questo, certo, che per nostro amore, non sapeva tollerare che quell'uomo ci rubasse così, a man salva. Ora, data l'assoluta inettitudine e la cecità di mia madre, non ci vedeva altro rimedio, che un secondo marito. E lo designava anche in persona d'un pover'uomo, che si chiamava Gerolamo Pomino. Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora e si chiama Gerolamo come il padre: amicissimo mio, anzi più che amico, come dirò appresso. Fin da ragazzo veniva col padre in casa nostra, ed era la disperazione mia e di mio fratello Berto. Il padre, da giovane, aveva aspirato lungamente alla mano di zia Scolastica, che non aveva voluto saperne, come non aveva voluto saperne, del resto, di alcun altro; e non già perché non si fosse sentita disposta ad amare, ma perché il più lontano sospetto che l'uomo da lei amato avesse potuto anche col solo pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere - diceva - un delitto. Tutti finti, per lei, gli uomini, birbanti e traditori. Anche Pomino? No, ecco: Pomino, no. Ma se n'era accorta troppo tardi. Di tutti gli uomini che avevano chiesto la sua mano, e che poi si erano ammogliati, ella era riuscita a scoprire qualche tradimento, e ne aveva ferocemente goduto. Solo di Pomino, niente; anzi il pover'uomo era stato un martire della moglie. E perché dunque, ora, non lo sposava lei ? Oh bella, perché era vedovo! era appartenuto a un'altra donna, alla quale forse, qualche volta, avrebbe potuto pensare. E poi perché... via! si vedeva da cento miglia lontano, non ostante la timidezza: era innamorato, era innamorato... s'intende di chi, quel povero signor Pomino! Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le sarebbe parso un vero e proprio sacrilegio. Ma non credeva forse neppure, poverina, che zia Scolastica dicesse sul serio; e rideva in quel suo modo particolare alle sfuriate della cognata, alle esclamazioni del povero signor Pomino, che si trovava lì presente a quelle discussioni, e al quale la zitellona scaraventava le lodi più sperticate. M'immagino quante volte egli avrà esclamato, dimenandosi su la seggiola, come su un arnese di tortura: - Oh santo nome di Dio benedetto! Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli mansueti, credo che s'incipriasse e avesse anche la debolezza di passarsi un po' di rossetto, appena appena, un velo, su le guance: certo si compiaceva d'aver conservato fino alla sua età i capelli, che si pettinava con grandissima cura, a farfalla, e si rassettava continuamente con le mani. Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se mia madre, non certo per sé ma in considerazione dell'avvenire dei suoi figliuoli, avesse seguìto il consiglio di zia Scolastica e sposato il signor Pomino. E' fuor di dubbio però che peggio di come andarono, affidati al Malagna (la talpa!), non sarebbero potuti andare. Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli averi nostri, è vero, era andata in fumo; ma avremmo potuto almeno salvare dalle grinfie di quel ladro il resto che, se non più agiatamente, ci avrebbe certo permesso di vivere: senza bisogni. Fummo due scioperati; non ci volemmo dar pensiero di nulla, seguitando, da grandi, a vivere come nostra madre, da piccoli, ci aveva abituati. Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal Pinzone fu il nostro ajo e precettore. Il suo vero nome era Francesco, o Giovanni, Del Cinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone, ed egli ci s'era già tanto abituato che si chiamava Pinzone da sé. Era d'una magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di statura; e più alto, Dio mio, sarebbe stato, se il busto, tutt'a un tratto quasi stanco di tallir gracile in sù, non gli si fosse curvato sotto la nuca in una discreta gobbetta, da cui il collo pareva uscisse penosamente, come quel d'un pollo spennato, con un grosso nottolino protuberante, che gli andava sù e giù. Pinzone si sforzava spesso di tener tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perché questo risolino, non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più acuto e beffardo che mai. Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa, che né la mamma né noi vedevamo. Non parlava, forse perché non stimava dover suo parlare, o perché - com'io ritengo più probabile - ne godeva in segreto, velenosamente. Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciava fare; ma poi, come se volesse stare in pace con la propria coscienza, quando meno ce lo saremmo aspettato, ci tradiva. Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci in chiesa; era prossima la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo la confessione, una breve visitina alla moglie inferma del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che divertimento! Ma, appena in istrada, noi due proponemmo a Pinzone una scappatella: gli avremmo pagato un buon litro di vino, purché lui, invece che in chiesa e dal Malagna, ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi. Pinzone accettò felicissimo, stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve; andammo nel podere; fece il matto con noi per circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci su gli alberi, arrampicandocisi egli stesso. Ma alla sera, di ritorno a casa, appena la mamma gli domandò se avevamo fatto la nostra confessione e la visita al Malagna: - Ecco, le dirò... - rispose, con la faccia più tosta del mondo; e le narrò per filo e per segno quanto avevamo fatto. Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi tradimenti noi ci prendevamo. Eppure ricordo che non eran da burla. Una sera, per esempio, io e Berto, sapendo che egli soleva dormire, seduto su la cassapanca, nella saletta d'ingresso, in attesa della cena, saltammo furtivamente dal letto, in cui ci avevano messo per castigo prima dell'ora solita, riuscimmo a scovare una canna di stagno, da serviziale, lunga due palmi, la riempimmo d'acqua saponata nella vaschetta del bucato; e, così armati, andammo cautamente a lui, gli accostammo la canna alle nari - e zifff! -. Lo vedemmo balzare fin sotto al soffitto. Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar nello studio, non sarà difficile immaginare. La colpa però non era tutta di Pinzone; ché egli anzi, pur di farci imparare qualche cosa, non badava a metodo né a disciplina, e ricorreva a mille espedienti per fermare in qualche modo la nostra attenzione. Spesso con me, ch'ero di natura molto impressionabile, ci riusciva. Ma egli aveva una erudizione tutta sua particolare, curiosa e bislacca. Era, per esempio, dottissimo in bisticci: conosceva la poesia fidenziana e la maccaronica, la burchiellesca e la leporeambica, e citava allitterazioni e annominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di tutti i poeti perdigiorni, e non poche rime balzane componeva egli stesso. Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina dirimpetto non so più quante volte questa sua Eco: In cuor di donna quanto dura amore? - (Ore). Ed ella non mi amò quant'io l'amai? - (Mai). Or chi sei tu che sì ti lagni meco? - (Eco). E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti del Moneti e gli altri, pure in sonetti, d'un altro scioperatissimo che aveva avuto il coraggio di nascondersi sotto il nome di Caton l'Uticense. Li aveva trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchio cartolare dalle pagine ingiallite. - Udite, udite quest'altro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite: A un tempo stesso io mi son una, e due, E fo due ciò ch'era una primamente. Una mi adopra con le cinque sue Contra infiniti che in capo ha la gente. Tutta son bocca dalla cinta in sue, E più mordo sdentata che con dente. Ho due bellichi a contrapposti siti, Gli occhi ho ne' piedi, e spesso a gli occhi i diti. Mi pare di vederlo ancora, nell'atto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino. Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che Pinzone c'insegnava; e credeva fors'anche, nel sentirci recitare gli enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne avessimo già di avanzo. Non così zia Scolastica, la quale - non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino - s'era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, s'imbatté in me per una delle stanze abbandonate; m'afferrò per il mento, me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi: - Bellino! bellino! bellino! - e accostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al volto, con gli occhi negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò, ruggendo tra i denti: - Muso di cane! Ce l'aveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove. Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero l'occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, quest'occhio non m'avrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi bastava. A diciott'anni m'invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave. Forse, se fosse in facoltà dell'uomo la scelta d'un naso adatto alla propria faccia, o se noi, vedendo un pover'uomo oppresso da un naso troppo grosso per il suo viso smunto, potessimo dirgli: « Questo naso sta bene a me, e me lo piglio; » forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto. Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato con me), non sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecava denari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo guardaroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di velluto nero, il gibus, e me ne andai a caccia così parato. Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre le mal'annate che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere alle nostre spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente bisogno le campagne. - Abbiamo avuto un'altra bella bussata! - diceva ogni volta, entrando. La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare vitigni americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti. Poi il consiglio di vendere lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E così prima fu venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le case e il podere della Stia, col molino. Mia madre s'aspettava ch'egli un giorno venisse a dire ch'era seccata la sorgiva. Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anche vero che un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia della terra. E' il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela che fui costretto a contrarre con lui. Egli ebbe l'arte di non farci mancare mai nulla, finché visse mia madre. Ma quell'agiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere, serviva a nascondere l'abisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo; giacché mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimonio vantaggioso. Il mio matrimonio, invece... - Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio? Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde: - E come no? Sicuro. Pulitamente... - Ma che pulitamente! Voi sapete bene che... Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia: - S'io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono... Ce l'ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene. Coraggio, dunque; avanti!

 

LA MAISON ET LA TAUPE


Je me suis trop hâté de dire, au début, que j’avais connu mon père. Je ne l’ai pas connu. J’avais quatre ans et demi quand il mourut. Étant allé sur une de ses balancelles, en Corse, pour certain négoce qu’il y faisait, il y mourut d’une fièvre pernicieuse, à trente-huit ans. Il laissait toutefois dans l’aisance sa femme et ses deux fils : Mathias (ce serait moi, et ce fut moi) et Robert, mon aîné de deux ans. Jusqu’à ces derniers temps vivait, tout près d’ici, sur la plage déserte, un très vieux pêcheur, qui fut matelot dans sa jeunesse sur la balancelle de mon père. Il n’était pas du pays et on ne sut jamais de quel pays il était : il se faisait appeler d’un drôle de surnom dont l’avaient sans doute affublé autrefois les mariniers d’Abruzze et d’Otrante : Giaracannà. Il possédait une petite barque, des nasses et des filets, et, depuis plus de trente ans, pratiquait la pêche sur ce coin de plage solitaire où il s’était construit avec quelques roches une espèce de tanière, dans laquelle il dormait la nuit, comme une bête heureuse, sans amours, sans pensées et sans peur. Les jours de vent et de mauvaise mer, il restait assis devant sa tanière, ses pieds déchaussés enfouis dans le sable, les coudes sur les genoux, la tête entre les mains ; il regardait les flots de ses yeux verdâtres et injectés de sang, et fumait une pipe presque sans tuyau, délicieusement culottée. C’est dans une de ces journées que j’allai le trouver, pour parler de mon père avec lui. Je dus faire mille efforts pour me faire entendre. Heureux homme, qui, par surcroît, était sourd ! Je le vois encore devant moi, dans sa vieille chemise toute rapiécée, coiffé d’une espèce de chapeau qui avait perdu toute forme et toute couleur et avait fini par ne plus faire qu’un avec la tête qui le portait ; une fière tête, au visage brûlé par le soleil et les embruns, encadré par une barbe courte, épaisse et blanche, comme l’écume des vagues. – Ah ! Fils de Gian Luca, c’est toi ? 7 Il me toisa de la tête aux pieds, puis souleva d’une main son chapeau et se gratta le chef. – Tu veux rire ? Car Gian Luca, d’un coup de poing, terrassait un brave taureau. Et il me raconta, à sa façon, en de rudes phrases incisives et avec des gestes violents, une aventure de mon père, à Nice, avec quelques marins anglais à moitié ivres. – Et que penses-tu, lui demandai-je alors, de ce capitaine anglais et de son chien, dont quelques vieux s’obstinent encore à parler, là, au pays ? Giaracannà hocha le corps tout entier, dédaigneusement, puis se frappa vigoureusement la poitrine, plusieurs fois, de ses paumes énormes : – Il a tout fait, avec celui-là, Gian Luca ! Quelques vieillards du pays, en effet, se plaisent encore à donner à entendre que la richesse de mon père (qui pourtant ne devrait plus leur donner ombrage, passée comme elle l’est depuis un bout de temps en d’autres mains) avait des origines… disons mystérieuses. Certains veulent qu’il se la soit procurée en jouant aux cartes, à Marseille, avec le capitaine d’un vapeur marchand anglais, lequel, après avoir perdu tout l’argent qu’il avait sur lui, et ce ne devait pas être peu, avait joué encore une grosse charge de soufre embarquée dans la lointaine Sicile pour le compte d’un négociant de Liverpool (ils savent aussi ce détail ! et le nom !) qui avait affrété le vapeur ; ensuite, de désespoir, levant l’ancre, il s’était noyé au large. Ainsi le vapeur était rentré à Liverpool allégé aussi du poids du capitaine. Une chance qu’il avait pour lest la malignité de mes concitoyens… D’autres veulent, par contre, que ce capitaine n’ait point du tout joué aux cartes avec mon père, lequel – bonnes âmes ! – était sans doute enclin aux jeux de main, à la violence, à la débauche et même… au vol, là ! Mais le vice du jeu, non, non, cent fois non, il ne l’avait pas, il ne l’avait pas, et il ne l’avait pas. Le capitaine anglais, selon ceux-là, avait été assez bonasse pour confier à mon père, en partant, une certaine cassette que naturellement mon père s’était hâté de forcer ; il l’avait trouvée pleine de pièces d’or et d’argent et se l’était appropriée, niant ensuite, au retour du capitaine, l’avoir jamais reçue en garde. Et le capitaine ? Pauvre homme ! il n’avait su prendre d’autre parti que de mourir de crève-coeur. D’autres, enfin, soutiennent que ce capitaine anglais n’est pas vrai ; mieux, qu’il est bien vrai, mais qu’il n’a rien à voir dans la richesse de mon père, sinon par un beau chien de garde qu’il lui voulut laisser en souvenir. Un jour que mon père se trouvait à la campagne, dans la terre dite des Deux Rivières, ce chien, qui était rouge de poil et gros comme 8 cela, se mit à gratter, à creuser au pied d’un mur… où mon père trouva la précieuse cassette. Quels chiens, hein ? mon vieux Giaracannà, il y a en ce monde ! Mais je connais encore d’autres chiens qui un jour te découvrirent mort dans ta tanière sur la plage déserte et, chose horrible à dire, t’outragèrent aussi, déchirèrent ton pauvre corps. Ta petite barque resta quelques jours tirée à sec sur la rive ; puis la mer la reprit et qui sait où elle est ? Perdue comme la richesse de mon père. Je te serai toujours reconnaissant de l’affection et du souvenir que tu avais conservés à Gian Luca Pascal. Nous possédions terres et maisons. Sagace et aventureux, mon père n’avait pour ses commerces aucun siège stable : toujours en tournée sur quelqu’une de ses balancelles, là où il se trouvait le mieux et achetait avec le plus d’opportunité, pour les revendre aussitôt, marchandises de toutes sortes, et, pour ne pas se laisser aller à des entreprises trop pleines de grandeur et de risques, il transformait à mesure ses gains en terres et maisons, ici, dans son propre petit pays, où peut-être il comptait se reposer bientôt, dans l’aisance péniblement acquise, content et paisible, entre sa femme et ses enfants. C’est ainsi qu’il acquit d’abord la terre des Deux Rivières, riche en oliviers et en mûriers ; puis le domaine de l’Épinette, richement pourvu, lui aussi, et avec une belle source, qui fut captée dans la suite, pour le moulin ; puis toute la montée de l’Éperon, qui était le meilleur vignoble de notre contrée, et enfin San-Rocchino, où il bâtit une villa délicieuse. En ville, outre la maison que nous habitions, il en acheta deux autres et tout cet îlot qu’on a aujourd’hui arrangé en arsenal. Sa mort, qui survint presque à l’improviste, fut notre ruine. Ma mère, inapte à l’administration de l’héritage, dut la confier à un homme qui, pour tous les bienfaits reçus de mon père, devait, pensait-elle, se sentir tenu au moins à un peu de gratitude, et celle-ci, à part le zèle et l’honnêteté, ne lui aurait coûté de sacrifice d’aucune sorte : il était, en effet, grassement rémunéré. Une sainte femme, ma mère ! D’une nature réservée et très paisible, qu’elle avait peu d’expérience de la vie et des hommes ! À l’entendre parler, on eût dit une petite fille. Elle parlait du nez et riait aussi du nez ; car, à chaque fois, comme si elle eût eu honte de rire, elle serrait les lèvres. Très délicate de complexion, elle n’eut jamais, après la mort de mon père, une santé bien solide ; mais elle ne se plaignit jamais de ses maux, et je ne crois pas qu’elle-même s’en chagrinât à l’extrême ; elle les acceptait, résignée, comme une conséquence naturelle de son malheur. Peut-être s’attendait-elle à mourir, elle aussi, de douleur ; elle devait 9 donc remercier Dieu qui la gardait en vie, tout humble et éprouvée qu’elle était, pour le bien de ses enfants. Elle avait pour nous une tendresse absolument maladive, toute palpitante et épouvantée ; elle nous voulait toujours près d’elle, comme si elle eût craint de nous perdre, et souvent, à peine l’un de nous s’était-il un peu éloigné, qu’il fallait que les servantes se missent en quête par la vaste maison. Comme une aveugle, elle s’était abandonnée à la direction de son mari ; restée sans lui, elle se sentit perdue dans le monde. Et elle ne sortit plus de la maison, sauf les dimanches, le matin de bonne heure, pour aller à la messe à l’église voisine, accompagnée de deux vieilles servantes, qu’elle traitait comme des parentes. Dans la maison même, elle resserra son existence dans trois chambres seulement, abandonnant toutes les autres aux soins avares des servantes et à nos polissonneries. Il s’exhalait, dans ces pièces, de tous les meubles démodés, des tentures décolorées, cette odeur spéciale des vieilles choses, comme l’haleine d’un autre temps ; et je me rappelle que plus d’une fois je regardai autour de moi avec une étrange consternation qui me venait de l’immobilité silencieuse de ces vieux objets restés là depuis tant d’années sans usage et sans vie. Parmi les gens qui venaient le plus souvent rendre visite à notre mère, était une soeur de mon père, vieille fille capricieuse, avec une paire d’yeux de furet, brune et intraitable. Elle s’appelait Scholastique. Mais à chaque fois elle s’arrêtait fort peu, car tout d’un coup, en causant, elle s’emportait et s’en allait, furieuse, sans saluer personne. Pour moi, tout petit, j’en avais grand-peur. Je la regardais avec de grands yeux, surtout quand je la voyais se lever d’un bond en furie et que je l’entendais crier, tournée vers ma mère et frottant rageusement un pied sur le parquet : – Tu sens le vide ? La taupe ! La taupe ! Elle faisait allusion à Malagna, l’administrateur qui nous creusait dans l’ombre la fosse sous les pieds. Tante Scholastique (je l’ai su depuis) voulait à tout prix que ma mère se remariât. D’ordinaire les belles-soeurs n’ont pas de ces idées et ne donnent pas de ces conseils. Mais elle avait un sentiment âpre et farouche de la justice ; et à cause de cela, sans doute, plus que par amour pour nous, elle ne pouvait souffrir que cet homme nous dérobât ainsi, impunément. Or, étant donné l’inaptitude absolue et la cécité de ma mère, elle n’y voyait d’autre remède qu’un second mari. Et elle le désignait même en la personne d’un pauvre homme, qui s’appelait Jérôme Pomino. 10 Celui-ci était veuf, avec un fils, qui vit encore et s’appelle Jérôme, comme son père : mon ami intime, même plus que mon ami, comme je le dirai par la suite. Tout enfant, il venait avec son père dans notre maison et était notre désespoir, à moi et à mon frère Berto. Le père, dans sa jeunesse, avait aspiré longuement à la main de tante Scholastique, qui n’avait pas voulu en entendre parler, pas plus, du reste, que d’aucun autre ; non pas qu’elle ne se sentît point disposée à aimer, mais parce que le plus lointain soupçon que l’homme aimé d’elle aurait pu, ne fût-ce qu’en pensée, la trahir, lui aurait fait commettre, disait-elle, un crime. Tous faux, pour elle, les hommes, tous coquins et traîtres. Pomino aussi ? Non, pour cela, non, pas Pomino. Mais elle s’en était aperçue trop tard. De tous les hommes qui avaient demandé sa main et qui s’étaient mariés ensuite, elle avait réussi à découvrir quelque trahison et en avait eu une joie féroce. De Pomino seulement, rien : même, le pauvre homme avait été un martyr de sa femme. Et pourquoi donc, maintenant, ne l’épousait-elle pas, elle ? Oh ! la belle histoire ! parce qu’il était veuf ! Il avait appartenu à une autre femme, à laquelle peut-être il aurait pu penser quelquefois. Et puis, parce que… eh ! cela se voyait de cent lieues, malgré sa timidité : il était amoureux, il était amoureux… vous comprenez de qui, le pauvre Pomino. Figurez-vous si ma mère allait y consentir ! Cela lui aurait paru un véritable sacrilège. Mais elle ne croyait peut-être même pas, la pauvrette, que tante Scholastique parlât sérieusement ; et elle riait, de son rire particulier, aux emportements de sa belle-soeur, aux exclamations du pauvre M. Pomino, qui se trouvait présent à ces discussions. C’était un petit homme propret, ajusté, aux yeux bleus pleins de mansuétude ; je crois qu’il se poudrait et qu’il avait même la faiblesse de se passer un peu de rouge, à peine, à peine, sur les joues ; certes, il était fier d’avoir conservé à son âge tous ses cheveux, qu’il se peignait, avec un soin extrême, en ailes de pigeon, et se rajustait continuellement avec les mains. Je ne sais comment seraient allées nos affaires, si ma mère, non pas certes pour elle, mais en considération de l’avenir de ses enfants, avait suivi le conseil de tante Scholastique et épousé M. Pomino. Il est pourtant hors de doute qu’elles n’auraient pu aller plus mal qu’elles n’allèrent, confiées à Malagna (la Taupe) ! Quand nous fûmes devenus grands, Berto et moi, une grande partie de nos biens s’en était allée en fumée ; mais nous aurions pu au moins sauver des griffes de ce voleur le reste qui nous aurait permis de vivre, sinon encore dans l’aisance, du moins à l’abri du besoin. Nous fûmes 11 nonchalants ; nous ne voulûmes nous inquiéter de rien, continuant, grands, à vivre comme notre mère nous avait habitués, petits. Elle n’avait même pas voulu nous envoyer à l’école. Un certain Pinzone fut notre gouverneur et précepteur. Son vrai nom était François ou Jean del Cinque ; mais tous l’appelaient Pinzone, et il s’y était déjà si bien habitué qu’il s’appelait Pinzone lui-même. De très haute taille, il était d’une maigreur effrayante ; et, mon Dieu ! il aurait été encore plus grand, si son buste, tout d’un coup, comme fatigué de monter, ne s’était courbé sous la nuque en une gibbosité discrète, d’où le cou paraissait sortir péniblement, comme celui d’un poulet plumé, avec une grosse pomme protubérante qui montait et descendait. Pinzone s’efforçait souvent de retenir ses lèvres entre ses dents, comme pour mordre, châtier et cacher un rire tranchant, qui lui était propre ; mais ses efforts restaient en partie vains, parce que ce petit rire, ne pouvant s’échapper par les lèvres ainsi emprisonnées, le faisait par les yeux, plus aigu et plus impertinent que jamais. Avec ces petits yeux il devait voir dans la maison bien des choses que ni notre mère ni nous ne voyions. Il n’en disait rien, peut-être parce qu’il n’estimait pas que ce fût son devoir de parler ou parce que – comme il me semble aujourd’hui plus probable – il se réjouissait en secret, le serpent ! Nous faisions de lui tout ce que nous voulions ; il nous laissait faire ; mais ensuite, comme s’il eût voulu rester en paix avec sa propre conscience, au moment où nous nous y attendions le moins, il nous trahissait. Un jour, par exemple, notre mère lui ordonna de nous conduire à l’église ; Pâques était proche et nous devions nous confesser. Après la confession, une toute petite visite à la femme infirme de Malagna et vite à la maison. Pensez un peu quel divertissement ! Mais à peine dans la rue, nous proposâmes à Pinzone une escapade ; nous lui paierions un bon litre de vin à condition qu’au lieu de l’église et de Malagna il nous laissât aller à l’Épinette chercher des nids. Pinzone accepta, tout heureux, en se frottant les mains. Il but ; nous allâmes à la ferme : il fit le fou avec nous pendant trois bonnes heures, nous aidant à grimper aux arbres, y grimpant lui-même. Mais, le soir, de retour à la maison, à peine notre mère lui eut-elle demandé si nous avions fait notre confession et la visite à la Malagna : – Voilà, je vais vous dire…, répondit-il le plus effrontément du monde. Et, de fil en aiguille, il raconta tout ce que nous avions fait. 12 Et les vengeances que nous prenions de ses trahisons ne servaient à rien. Pourtant je me rappelle, que, quand nous nous y mettions, ce n’était pas pour rire. Combien avec un tel précepteur nous devions progresser dans nos études, on l’imaginera sans peine. La faute pourtant n’en était pas toute à Pinzone, au contraire ; pourvu qu’il nous fît apprendre quelque chose, il ne regardait pas aux méthodes et aux disciplines et recourait à mille expédients pour arrêter notre attention. Il y réussissait souvent avec moi, qui étais de nature très impressionnable. Mais il avait une érudition à lui, toute particulière, curieuse et fantasque. Il était par exemple très versé dans les calembours ; il connaissait la poésie macaronique ; il citait des allitérations, des onomatopées et des corrélatifs de tous les poètes gâtemétier ; il composait lui-même nombre de rimes extravagantes. Ma mère était convaincue que ce que nous enseignait Pinzone pouvait suffire à nos besoins. D’un tout autre avis était tante Scholastique, qui – ne réussissant pas à coller à ma mère le Pomino de son coeur – s’était mise à nous persécuter, Berto et moi ; mais nous, forts de la protection de notre mère, nous ne l’écoutions pas, et elle s’irritait si terriblement que, si elle l’avait pu sans se faire voir ni entendre, elle nous aurait certainement battus jusqu’à nous enlever la peau. Je me souviens qu’une fois, se sauvant, comme à l’ordinaire, furieuse, elle vint donner sur moi dans une des pièces abandonnées ; elle m’attrapa par le menton, me le serra de toutes ses forces entre ses doigts, en me disant : « Mon chéri ! mon chéri ! mon chéri ! » et en rapprochant de plus en plus, à mesure qu’elle parlait, mon visage du sien, les yeux dans les yeux, pour finir par émettre une sorte de grognement et par me lâcher, en rugissant entre ses dents : – Museau de chien ! C’est surtout à moi qu’elle en avait, à moi qui pourtant m’appliquais aux étranges enseignements de Pinzone sans comparaison plus que Berto, mais ce devait être ma face placide et irritante et ces grosses lunettes rondes qu’on m’avait imposées pour me redresser un oeil, lequel je ne sais pourquoi, avait tendance à regarder pour son compte, autre part. C’était pour moi, ces lunettes, un vrai martyre. Au point qu’un jour je les envoyai promener et laissai l’oeil libre de regarder où il lui plairait. D’ailleurs, même droit, cet oeil ne m’aurait pas rendu beau. Il était plein de santé et cela me suffisait. À dix-huit ans, j’eus la face envahie par une forêt de poils roussâtres et crépus, au grand dam de mon nez plutôt petit, qui se trouva comme perdu entre eux et mon front spacieux et grave. Peut-être, s’il était au pouvoir de l’homme de se choisir un nez approprié à sa face, ou, si, en voyant un pauvre homme accablé par un nez trop gros pour son mince visage, nous pouvions lui dire : « Ce nez me va, et je le prends pour moi », peut-être, dis-je, aurais-je changé le mien volontiers, et aussi mes yeux et tant d’autres choses de ma personne. Mais, sachant bien que c’est impossible, je me résignais à mes traits et je ne m’en souciais pas plus que cela. Berto, au contraire, beau de corps et de visage (au moins comparé à moi), ne pouvait se détacher du miroir et se lissait et se caressait et dépensait sans compter pour les cravates les plus nouvelles, pour les parfums les plus exquis et pour le linge et le vêtement. Pour le faire enrager, je pris un jour dans sa garde-robe une jaquette flambant neuve, un très élégant gilet de velours noir, un chapeau haut de forme, et je m’en allai à la chasse ainsi paré. Batta Malagna, cependant, s’en venait déplorer près de ma mère les mauvaises années qui le contraignaient à contracter des dettes fort onéreuses pour pourvoir à nos dépenses excessives et aux nombreux travaux de réparation, dont les fermes avaient continuellement besoin. – Encore une belle tuile qui nous tombe ! disait-il chaque fois en entrant. La neige avait détruit les oliviers en fleurs, aux Deux-Rivières, ou bien le phylloxéra avait ravagé les vignes de l’Éperon. Il fallait recourir aux plants américains, résistant au mal. Donc, autres dettes. Puis le conseil de vendre l’Éperon, pour se délivrer des « vautours » qui l’assiégeaient. Et ainsi furent vendus d’abord : l’Éperon, puis les Deux-Rivières, puis San- Rocchino. Restaient les maisons et le domaine de l’Épinette, avec le moulin. Ma mère s’attendait à ce qu’il vînt un jour lui dire que la source s’était tarie. Nous fûmes, il est vrai, paresseux, et dépensâmes sans mesure ; mais il n’en est pas moins vrai qu’un voleur plus voleur que Batta Malagna ne naîtra jamais plus sur la face de la terre. C’est le moins que je puisse lui dire, en considération de la parenté que je fus amené à contracter avec lui. Il eut l’air de ne nous faire manquer jamais de rien, tant que vécut ma mère. Mais cette aisance, cette liberté poussée jusqu’au caprice, dont il nous laissait jouir servait à cacher l’abîme qui, ensuite à la mort de ma mère, m’engloutit tout seul, car mon frère eut la chance de contracter à temps un mariage avantageux. Mon mariage, au contraire… – Il faudra pourtant que j’en parle, eh ! don Eligio, de mon mariage ? 14 Grimpé là-haut, sur son échelle de lampiste, don Eligio Pellegrinotto me répond : – Et comment donc ! Courage, donc ; en avant !



 

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